giovedì 8 dicembre 2011

LA CRISI ECONOMICA COME PRETESTO PER UNIRE PD E TERZO POLO /3

Una strategia suicida, 
vero e proprio trionfo del berlusconismo

(segue) Dopo aver verificato, numeri alla mano, perché l’ossessione centrista di parte del gruppo dirigente del Pd, da un punto di vista strategico, costituisce un suicidio politico, bisogna comprendere bene in che senso il perseguimento convinto di questo tipo di obiettivo finisca col rappresentare un vero e proprio trionfo del berlusconismo. Vanno, pertanto, brevemente accennati i tratti salienti di un fenomeno che, fin qui, abbiamo più volte nominato, senza però mai poi provare a darne una qualche minima definizione.

Ora che, finalmente, Silvio Berlusconi sembra essersi adagiato sul tratto discendente della sua parabola politica, insomma, è possibile dire una parola di chiarezza su questa sciagurata fase storica? L’uso violento dell’apparato mediatico che lui direttamente (nelle televisioni e negli altri media di famiglia) o indirettamente (nei media controllati grazie al suo potere di pressione politica o finanziaria) ha avuto modo di orientare, la propaganda ossessiva a base di slogan ad alto impatto emozionale, l’occultamento e il sovvertimento della realtà fattuale, sono tutti elementi che vogliamo provare a lasciarci definitivamente alle spalle, oppure no?

Le vicende che abbiamo fin qui descritto, purtroppo, danno un pessimo segnale in proposito: Berlusconi ha realizzato per anni le sue finalità prioritarie ― in estrema sintesi: la neutralizzazione delle inchieste giudiziarie che direttamente lo coinvolgevano; la salvaguardia del suo impero economico ― innescando nel suo elettorato dei meccanismi psicologici, per cui il voto al suo schieramento doveva apparire come qualcosa di ineluttabile, a prescindere poi da ogni verifica di merito sull’operato del suo governo. Il piatto forte delle sue campagne elettorali, in fondo, è sempre stato questo: “la paura di”. Se non volete “A”, dovete votare B. Laddove B. è stata la costante che ha dominato la scena politica italiana, per un ventennio (o giù di lì), mentre “A” era una variabile di comodo: la dittatura comunista; l’invasione islamica; il partito delle tasse (o anche quello “dell’invidia e dell’odio”); etc.

Ebbene: il partito veltroniano “a vocazione maggioritaria”, quello che ha provato a convincere l’ipotetico berlusconiano moderato a preferire la serietà del nuovo soggetto politico al proprio vecchio referente elettorale, non è un partito che a parole diceva di ripudiare l’antiberlusconismo e nei fatti, poi, attraverso la cosiddetta strategia del voto utile, cercava invece di costringere l’elettore di sinistra a continuare a votare “come ha sempre votato”, per evitare che poi vincesse nuovamente Berlusconi?

E, di fronte al fallimento di questa strategia basata sulla doppiezza e sulla mistificazione, il progetto ancor più smaccatamente centrista, denunciato dalla De Gregorio (l’idea di sfruttare la crisi economica per far digerire all’elettorato di sinistra un’eventuale accordo elettorale con gli ex alleati di Berlusconi: il cosiddetto Terzo Polo), non è una ulteriore applicazione di questo meccanismo psicologico?

Lo stesso governo Monti, di fatto, oggi, nasce grazie a una massiccia dose di propaganda mediatica di questo tipo: “se non vuoi che l’Italia fallisca devi accettare il cambio di governo senza passaggio elettorale”. ‘Qualcuno’ (23), addirittura, è arrivato a parlare espressamente di “sospensione della democrazia”. E qui il problema è che ― come già si è accennato in precedenza ― se è vero che la nostra è pur sempre una Repubblica parlamentare (e che dunque in caso di dimissioni del governo uscito vincitore dalle urne, il Presidente della Repubblica può sempre verificare se il Parlamento è disposto a dare la sua fiducia a un nuovo esecutivo), va anche detto che le modifiche significative prodotte dalla legge elettorale altrimenti nota come “Porcata” non consentono certo di avere un Parlamento che sia perfettamente rappresentativo delle diverse opzioni politiche presenti nel Paese; un parlamento, peraltro, in cui vi sono diversi esponenti che non brillano certo per autonomia politica e per dirittura morale.

Ma, ancor più che sul terreno delle pratiche politiche, è su quello dei contenuti programmatici che si può evidenziare chiaramente quanto il berlusconismo abbia condizionato e stia condizionando l’azione del Partito democratico.

Si pensi a quello che è il vero e proprio nervo scoperto di questa fase storica della politica italiana: le politiche del lavoro. Questo è il settore nel quale è più evidente che mai, quanto siano azzeccate le parole, scritte da Peppino Caldarola, in uno dei suo articoli più recenti (24):

«Il berlusconismo, ecco la conclusione, con la sua martellante campagna anticomunista, è riuscito a provocare il più gran rigetto culturale della sinistra che si sia mai prodotto in Italia spingendola all’occultamento di sé».

Come altro potrebbe spiegarsi, infatti, quella subordinazione mentale che spinge il nuovo che avanza nel Pd, il sindaco di Firenze, Matto Renzi, a rilasciare (25) dichiarazioni del genere:

«Sto con Marchionne. La Fiat fa un investimento sul proprio futuro e per la prima volta non chiede i soldi allo Stato e agli italiani».

Ma Renzi lo ha capito cosa pretende la Fiat in cambio di promesse che al momento non si sono ancora tradotte in nessun serio impegno economico di investimento? Ma una forza politica di centrosinistra come può minimamente tollerare l’accordo di Pomigliano, quello che veniva propagandato come un caso del tutto peculiare ed eccezionale, mentre ora sembra essere diventato la base per tutte le future intese sindacali, dopo che la Fiat ha disdetto tutti i contratti nazionali vigenti? Possibile che Renzi seriamente pensi che il futuro della produzione automobilistica italiana non dipenda da una questione di investimento in innovazione tecnologica e progettuale, ma dipenda dalla pausa mensa di mezz’ora a metà turno? A Pomigliano, nelle otto ore di turno, d’ora in avanti, non ci sarà più una pausa mensa di mezz’ora e due pause di venti minuti ciascuna, ma solo tre pause da dieci minuti, con la mensa collocata a fine turno (26). Otto ore di fila senza mangiare, salvo un rapido spuntino in una delle tre pause da dieci minuti graziosamente concesse, in ognuno degli insediamenti Fiat ancora attivi, e l’industria automobilistica italiana rifiorirà. Renzi, a quanto pare, ne è certo. E dunque non è il caso di porsi alcun dubbio, in proposito.

Ma all’incapacità evidente di candidarsi a rappresentare politicamente gli interessi della classe operaia, va purtroppo sommata anche la debolissima posizione che il Pd assume riguardo alla questione del precariato esistenziale.

Qui il punto politico che bisogna sollevare con forza è l’illegalità sostanziale che ammorba larga fascia dei settori produttivi di questo Paese.

Perché non si ha il coraggio di dire apertamente che l’introduzione di forme contrattuali più flessibili, iniziata col pacchetto Treu (27) e dilagata con la legge 30 del 2003 (inopinatamente intestata a Marco Biagi (28), vittima di un focolaio terroristico del tutto fuori dal tempo e da ogni logica), non ha affatto prodotto ― come si auspicava ― una regolarizzazione di quella significativa massa di rapporti di lavoro, svolti in nero, per sottrarsi a un regime contrattuale considerato troppo rigido? Perché non si riesce a dire che il contratto di stage formativo, così come quello di collaborazione a vario titolo, ed ogni altra misura analoga escogitata per evitare di regolarizzare un’assunzione che dovrebbe essere a tempo indeterminato, nella sostanza, non differiscono dal lavoro irregolare sic et simpliciter? Perché non si riesce, insomma, a far capire che il datore di lavoro che impone al lavoratore questo tipo di pratiche non è diverso dall’imprenditore che elude o evade il fisco, essendo in ogni caso il tutto finalizzato a incrementare in maniera irregolare i propri margini di profitto?

Sono questi gli aspetti che tangibilmente mostrano cosa significhi avere come principale partito del centrosinistra un soggetto politico che, nella migliore delle ipotesi, cerca di conciliare gli interessi dell’impresa con quelli dei lavoratori, quando non si ha invece la netta sensazione che siano invece solo gli interessi delle imprese, quelli che il partito reputi davvero rilevanti (come testimonia appunto lo scivolone di Renzi, citato poc’anzi).

Sono queste le ragioni per cui è più che mai auspicabile che quell’inversione di tendenza che gli elettori sono riusciti a imporre ai dirigenti di partito, a Milano, a Napoli (29) e soprattutto in occasione dei referendum (30) per l’acqua bene comune e contro il ritorno al nucleare da fissione (oltre che per cancellare l’ennesima legge ad personam che Berlusconi si era fatto per evitare il giudizio dei tribunali), riesca a realizzarsi anche alle prossime elezioni politiche.

Elezioni politiche che, sia chiaro: prima ci saranno e meglio sarà, per il futuro del nostro Paese.

Giuseppe D'Elia


«Ci conviene perdere?!?
Ma come ci conviene perdere?
In che senso?» 
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(23) http://archivio-radiocor.ilsole24ore.com/articolo-999868/governo-berlusconi-esecutivo-monti-e/

(24) http://www.linkiesta.it/blogs/mambo/sara-casini-e-non-il-pd-decidere-la-fine-di-berlusconi

(25) http://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2011/01/13/news/renzi-sto-con-marchionne-primo-diritto-il-lavoro-3164889

(26) http://seideegiapulp.tumblr.com/post/718850073/la-globalizzazione-allombra-del-vesuvio-di-domenico

(27) http://it.wikipedia.org/wiki/Pacchetto_Treu

(28) http://it.wikipedia.org/wiki/Legge_Biagi

(29) http://www.repubblica.it/politica/2011/05/30/dirette/amministrative_la_sfida_dei_ballottaggi_seggi_chiusi_alle_15_poi_gli_exit_poll-16952623/

(30) http://it.wikipedia.org/wiki/Referendum_abrogativi_del_2011_in_Italia

mercoledì 7 dicembre 2011

LA CRISI ECONOMICA COME PRETESTO PER UNIRE PD E TERZO POLO /2

Una strategia suicida, 
vero e proprio trionfo del berlusconismo

(segue) Va detto subito che ciò che rende plausibile una deriva centrista del Pd, nei termini posti dalla De Gregorio, è proprio la storia di questo partito. Un soggetto politico che nasce dalla fusione di due partiti eredi della tradizione politica comunista e democristiana: i Democratici di Sinistra (già Partito Democratico della Sinistra) e la Margherita (nata dalla confluenza del Partito Popolare Italiano e di altri soggetti centristi in un partito unico). Una fusione, questa, che ha come scopo dichiarato la prospettiva di avere, nell’Italia del tardo berlusconismo, un nuovo partito che possa essere in grado di continuare a rappresentare il proprio elettorato di riferimento, ma anche di riuscire ad attrarre gli elettori più moderati dello schieramento che per quasi quindici anni ha sostenuto la singolare parabola politica dell’imprenditore ‘prestato’ alla politica.

Vedremo meglio in seguito quali sono i tratti salienti del berlusconismo e gli effetti che questa pluriennale esperienza ha prodotto nel sistema politico italiano. 

Qui ci interessa ragionare sulla strategia ispiratrice del Pd, come partito di centrosinistra che punta a vincere le contese elettorali strappando elettori allo schieramento avverso. Si capisce benissimo che uno scenario del genere presuppone un quadro politico che è più bipartitico che bipolare. Si sa benissimo (o si dovrebbe sapere), però, che nell’Italia repubblicana non c’è mai stato il bipartitismo e solo a partire dagli anni Novanta del secolo scorso si è sviluppato il cosiddetto bipolarismo dell’alternanza. Un fenomeno politico che ha sempre visto da una parte Berlusconi (e i suoi alleati) e dall’altra “i comunisti”, l’appellativo di comodo con cui l’impero mediatico etichettava i suoi avversari, veicolando e agevolando la propaganda del proprietario dell’impero (lo stesso Berlusconi, chiaramente).

Dal 1994 a tutt’oggi, il centrodestra italiano è sempre stato guidato da Silvio Berlusconi e in ogni tornata elettorale ha sempre avuto lui come candidato premier (sebbene l’Italia sia ancora formalmente una Repubblica parlamentare, dove dunque il capo del governo ― checché se ne dica ― è espressione di una maggioranza parlamentare e, quindi, non è eletto direttamente dal popolo).

Berlusconi ha vinto tutte le volte in cui è riuscito a tenere assieme quell’eterogeneo schieramento di centrodestra che va dall’autonomista Lega Nord ai democristiani più tradizionalisti, passando per gli eredi del post-fascismo, per i liberali dichiarati e per i socialisti craxiani. Il centrosinistra ha vinto invece nel 1996 e nel 2006. In entrambe le occasioni gli elettori premiarono una coalizione di partiti guidata da Romano Prodi. Ma le condizioni e le sorti dei due governi del professore furono molto diverse.

Nel 1996, la vittoria del centrosinistra (8) fu agevolata dal concorso di due peculiare circostanze: un accordo tecnico più che politico con Rifondazione comunista (il cosiddetto patto di desistenza (9): una sorta di intesa per non ostacolarsi a vicenda) e la scelta ― successivamente non più reiterata ― della Lega Nord di non allearsi col centrodestra berlusconiano.

Le elezioni del 2006, sul piano strategico, rappresentano invece il punto di svolta della storia del centrosinistra italiano nella cosiddetta Seconda Repubblica. Il governo Berlusconi uscente aveva chiuso la legislatura precedente cambiando la legge elettorale. Molto di quello che è successo negli ultimi anni è legato più o meno direttamente all’approvazione del cosiddetto Porcellum del leghista Calderoli (10), con tanto di liste bloccate e senza preferenze, nonché di premi di maggioranza e di soglie di sbarramento variabili. La prima reazione dei partiti fu quella di unirsi in due grandi coalizioni di segno opposto: Berlusconi, nella sua, oltre agli alleati ormai storici ― in rigoroso ordine alfabetico: Bossi (Lega Nord), Casini (Unione di Centro) e Fini (Alleanza nazionale) ― decise di tirarvi dentro persino i neofascisti dichiarati (e vedremo tra un po’ che questo non fu un dettaglio irrilevante); Prodi venne scelto con una consultazione molto partecipata, sul modello delle primarie USA (11), per guidare uno schieramento politico che andava dai liberali di Dini ai comunisti che, nel frattempo, si erano già divisi in due mini partiti (uno più movimentista e l’altro più filo-governativo).
Prodi vinse le elezioni di un soffio, ma fu la più classica delle vittorie di Pirro. L’Italia politica del 2006 appariva nettamente spaccata in due: poco più di 19 milioni di elettori a sostegno di Prodi, poco meno di 19 milioni di voti a sostegno Berlusconi, i dati registrati alla Camera (laddove votano tutti i nostri connazionali maggiorenni). Ciò nonostante, proprio grazie al Porcellum, Prodi, partendo dai 340 seggi della Camera, avrebbe ugualmente goduto di una solida maggioranza parlamentare (12), per provare ad attuare il previsto programma (13), se solo al Senato non ci fosse stato un risultato peggiore. L’ingovernabilità del Senato del Prodi bis, insomma, quella maggioranza che si reggeva solo grazie al voto dei senatori a vita, non fu solo il frutto avvelenato di una brutta legge elettorale: al Senato, nel 2006, Prodi non riuscì ad avere un consenso maggioritario. In altre parole, se Prodi alla Camera era risuscito a spuntarla per una manciata di voti (circa due decine di migliaia), al Senato, era Berlusconi che, nel complesso, aveva raccolto più voti (14): non molti di più, certo! Ma comunque decisamente al di sopra delle due decine di migliaia su cui si fondava la vittoria di Prodi nel ramo del parlamento aperto al voto di tutti.

Certo, come accennavamo poco sopra, senza gli oltre quattrocentomila voti dei neofascisti dichiarati (15), Berlusconi non sarebbe riuscito ad azzoppare sul nascere il secondo governo Prodi, ma tant’è: i numeri sono numeri e al Senato non erano numeri favorevoli al centrosinistra. Ed è questo il reale motivo della rapida conclusione di quella esperienza di governo: non il tradimento dei comunisti ― tra l’altro furono tre centristi (Dini, Fisichella e Mastella) a far venire meno la fiducia, nel momento decisivo (16) ― ma un risultato elettorale negativo.

Un risultato elettorale negativo che, poi, si conferma (e, anzi, si rafforza) anche a seguito della prima svolta centrista del neonato Partito democratico: quella, datata 2008, del “voto utile” e del “partito a vocazione maggioritaria” che punta tutto su Walter Veltroni e sulla sua idea di rompere con la cosiddetta sinistra “radicale” (a suo dire “inaffidabile”), per parlare ai moderati dello schieramento avverso e convincerli a sostenere il suo nuovo progetto politico.

Questo è uno dei passaggi più critici: la lettura dei risultati elettorali. Nel 2006, Prodi riuscì a far sì che la fusione tra Ds e Margherita a cui lavorava già da tempo, trovasse una prima realizzazione, nel ripresentarsi uniti ― come alle Europee del 2004 (17) ― con una lista unica, sotto il segno dell’Ulivo. L’Ulivo di Prodi (18), dunque, ottenne circa dodici milioni voti (in percentuale sui voti validamente espressi: il 31,3%): grosso modo gli stessi voti che il Pd di Veltroni ha registrato, due anni dopo (19), vantando però nella grancassa mediatica una straordinaria vittoria, che aveva permesso al nuovo soggetto politico di raggiungere (e di superare di misura) il 33%.

In realtà, se si considera che nelle liste del Pd di Veltroni erano stati ‘ospitati’ anche i candidati radicali ― che potevano contare su un milione di preferenze registrate dalla Rosa nel pugno nel 2006 e su circa 750mila voti alle europee del 2009 (20) ― si capisce subito che, già il parlare di una sostanziale conferma dei voti ottenuti dall’Ulivo nel 2006 è un’affermazione assai generosa. E invece nella vulgata mediatica si è raccontato (e ancora oggi spesso si racconta) di un successo che è a dir poco paradossale: da un lato, perché non si capisce perché un sedicente partito a vocazione maggioritaria dovrebbe esultare per un risultato che, anche in termini percentuali, è parecchio al di sotto della maggioranza assoluta; dall’altro, perché ― anche volendo stimare in un inconcepibile zero assoluto, l’apporto di Pannella, Bonino e dei loro elettori ― il Pd di Veltroni cresce di due punti in percentuale rispetto all’Ulivo soltanto perché nel 2008 è aumentata l’astensione.

La strategia centrista, dunque, nell’immediato non ha prodotto alcun incremento reale nei consensi registrati dalle urne. La supposta capacità di attrazione del voto moderato non c’è stata. Soprattutto, se non fosse ancora sufficientemente chiaro l’esito disastroso della svolta centrista del 2008, mentre l’Unione di Prodi due anni prima aveva ottenuto una vittoria risicata, il Pd di Veltroni (quello “a vocazione maggioritaria”, ma anche no), alleato di Di Pietro e con la partecipazione nelle proprie liste di una delegazione radicale, perde le elezioni con un distacco di oltre tre milioni di voti (Berlusconi supera i diciassette milioni di voti, mentre la mini coalizione-noncoalizione di Veltroni nemmeno riesce ad arrivare a quattordici milioni di preferenze), pari a poco meno di dieci punti, in percentuale (Berlusconi presidente: quasi al 47%; Veltroni presidente: 37,5% circa).

Nonostante questa evidente sconfitta elettorale, Veltroni scelse di continuare a puntare dritto al centro, iniziando a corteggiare apertamente l’Udc. Qui è doveroso sottolineare che anche sommando i poco più di due milioni di voti del partito di Casini a quelli di Veltroni, nel 2008, la sconfitta sarebbe stata egualmente inevitabile. Tuttavia Veltroni continuava a sostenere che, per il futuro, bisognasse puntare a un’alleanza stabile con l’Udc. Nelle successive tornate elettorali, però, il Pd, localmente, fece registrare dei risultati imbarazzanti che spinsero Veltroni a dimettersi da segretario.

Anche a fronte di un risultato alquanto deprimente alle Europee del 2009 (il partito “a vocazione maggioritaria”, non riusciva a raccogliere nemmeno otto milioni di voti, su un corpo elettorale di cinquanta milioni di aventi diritto), nella nuova segreteria cominciano infine a registrarsi dei primi timidi accenni a un cambio di strategia e si introduce nel pubblico dibattito l’idea di far nascere un Nuovo Ulivo (21).

In verità, non si è mai capito bene se il cosiddetto Nuovo Ulivo dovesse essere un patto elettorale tra Pd e forze della sinistra, o se il progetto strategico di nuove alleanze dovesse mirare a coinvolgere anche l’Udc.

Di certo, è notoria l’avversione di Casini (22) per Vendola e Di Pietro (i due principali esponenti delle forze politiche collocabili a sinistra del Pd).

Di certo, è evidente che più il Pd si sposta al centro, più una parte del suo elettorato ― verosimilmente quella più di sinistra ― rinuncia a seguirlo.

Con il che si comprende meglio il senso di quel perverso ragionamento del dirigente piddino, di cui ci ha dato notizia la De Gregorio: se il nostro elettorato di riferimento non capisce i disegni degli strateghi di partito, sarà la situazione emergenziale generata dall’aggravarsi della crisi economica a indurre ognuno dei nostri potenziali elettori a più miti consigli.

Detta così sembra quasi un ricatto. E se non è proprio un ricatto, senz’altro non è un discorso squisitamente democratico.

(continua)

Giuseppe D'Elia


«Ci conviene perdere?!?
Ma come ci conviene perdere?
In che senso?» 
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(8) http://elezionistorico.interno.it/index.php?tpel=C&dtel=21/04/1996&tpa=I&tpe=A&lev0=0&levsut0=0&es0=S&ms=S

(9) http://archiviostorico.corriere.it/1995/ottobre/19/Ulivo_Rifondazione_accordo_elettorale_desistenza_co_0_951019936.shtml

(10) http://video.google.com/videoplay?docid=8532343123591937403 + http://it.wikipedia.org/wiki/Legge_Calderoli

(11) http://www.repubblica.it/2005/j/dirette/sezioni/politica/riforme/primarie/index.html

(12) http://elezionistorico.interno.it/index.php?tpel=C&dtel=09/04/2006&tpa=I&tpe=A&lev0=0&levsut0=0&es0=S&ms=S

(13) http://bit.ly/sbQC3q

(14) http://elezionistorico.interno.it/index.php?tpel=S&dtel=09/04/2006&tpa=I&tpe=A&lev0=0&levsut0=0&es0=S&ms=S

(15) http://it.wikipedia.org/wiki/Alternativa_Sociale + http://www.fiammatricolore.com/

(16) http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/200801articoli/29563girata.asp

(17) http://elezionistorico.interno.it/index.php?tpel=E&dtel=12/06/2004&tpa=Y&tpe=A&lev0=0&levsut0=0&es0=S&ms=S

(18) http://elezionistorico.interno.it/index.php?tpel=C&dtel=09/04/2006&tpa=I&tpe=A&lev0=0&levsut0=0&es0=S&ms=S

(19) http://elezionistorico.interno.it/index.php?tpel=C&dtel=13/04/2008&tpa=I&tpe=A&lev0=0&levsut0=0&es0=S&ms=S

(20) http://elezionistorico.interno.it/index.php?tpel=E&dtel=07/06/2009&tpa=Y&tpe=A&lev0=0&levsut0=0&es0=S&ms=S

(21) http://archiviostorico.corriere.it/2011/settembre/17/Bersani_nuovo_Ulivo_con_Pietro_co_9_110917014.shtml

(22) http://www.youtube.com/watch?v=Epc2TTAUlS0

martedì 6 dicembre 2011

LA CRISI ECONOMICA COME PRETESTO PER UNIRE PD E TERZO POLO /1

Una strategia suicida, 
vero e proprio trionfo del berlusconismo

Andrebbe ascoltato più e più volte, e con estrema attenzione, il discorso con cui Concita De Gregorio (1) mette a nudo la folle strategia di quella parte del gruppo dirigente del Partito Democratico, che ha come obiettivo dichiarato l’alleanza elettorale col cosiddetto Terzo Polo. Secondo la giornalista ― che dirigeva ancora l’Unità, all’epoca del colloquio in cui le venne espressamente prospettato quanto segue ― il piano esposto da questo importante dirigente del Pd è così sintetizzabile: perdere le regionali in Lazio, in modo tale da rafforzare la posizione di Fini (a cui si poteva ascrivere la candidatura, poi, risultata vincente), inducendolo così ad accelerare la definitiva rottura con Berlusconi, preludio alla nascita del nuovo soggetto politico centrista in collaborazione con Casini e della futura e vincente alleanza tra questo “Terzo Polo” e il Partito democratico. Ma il dettaglio più sgradevole della vicenda è la motivazione con cui questo personaggio argomentava a favore della sicura riuscita di un progetto che definire azzardato è dire poco: come far digerire alla sinistra del Pd l’accordo elettorale con gli ex alleati di Berlusconi e l’ulteriore slittamento verso destra del partito? Presto detto: sarà la crisi economica ad agevolare questo passaggio politico.

Già solo tutto questo dovrebbe essere sufficiente a permettere l’avvio di una seria riflessione su cosa sarà realmente il Pd del dopo Berlusconi. Gestire per un po’ la cosa pubblica insieme a lui (N.B. il governo Monti, senza i voti dei berlusconiani, di fatto, non ha una maggioranza parlamentare) e poi presentarsi alle elezioni in coalizione con i suoi alleati di sempre? Questo è il futuro? Questa è l’alternativa al berlusconismo?

Se, poi, a questo ‘sommo’ saggio di ‘alta’ strategia politica, andiamo a sommare le altre questioni che la De Gregorio tocca nel predetto intervento, lo scenario politico per gli anni a venire si fa decisamente cupo. Riassumendo in poche battute la ‘sagacia’ di quella parte della dirigenza del Pd che stiamo qui criticando, il quadro che ne viene fuori è grosso modo questo: i referendum? Inutile sostenerli. Non passeranno mai! Le proteste dei lettori? Irrilevanti, tanto poi quelli che protestano alla fine nemmeno ci vanno a votare! Le manifestazioni studentesche? Uno scialbo rituale stagionale: nulla di serio!

In definitiva, tutto quello che di politicamente rilevante c’è stato in Italia, dal punto di vista della partecipazione democratica ― dal No B-day del cosiddetto popolo viola, alla manifestazione delle donne (quella del “Se non ora, quando?”) ― per il Pd poteva anche non esserci. Anzi, fosse dipeso da questa oziosa dirigenza, probabilmente, nulla di tutto questo vi sarebbe mai stato: probabilità che diventa quasi certezza matematica, riguardo ai referendum.

Come il lettore più attento avrà senz’altro notato, abbiamo volutamente circoscritto questi spunti critici non al Partito democratico in quanto tale, ma a quella parte della sua dirigenza che si colloca su posizioni che sono in linea con quanto riportato dall’ex direttrice del quotidiano fondato da Antonio Gramsci.
Nelle righe che seguono, dunque, una volta verificata la coerenza e la verosimiglianza dei profili critici fin qui evidenziati, si proverà a trarre le conseguenze logiche di una siffatta strategia e, soprattutto, si cercherà di mostrare le principali ragioni per le quali sarebbe auspicabile una inversione di rotta.

Prima di procedere, però, è doveroso un breve accenno alla situazione emergenziale che ha determinato le dimissioni da capo dell’esecutivo di Silvio Berlusconi (2) e la nascita del super-governo di tecnici, presieduto da Mario Monti. Un governo che, al momento, praticamente, ha la fiducia dell’intero Parlamento (3). Un esecutivo, che, insomma, è letteralmente di unità nazionale, se si considerano le ben note mire autonomiste di quella che oggi è l’unica forza di opposizione parlamentare: la Lega Nord.

Ora, nel rinviare l’analisi di merito sull’operato del nuovo esecutivo al momento in cui questo sarà delineato formalmente (e, soprattutto, a quando si saranno stabilmente dispiegati gli effetti dei provvedimenti varati), sul metodo qualcosa si può e si deve dire subito, con molta chiarezza.

Innanzi tutto vogliamo ben sperare che questa impressionante maggioranza che rasenta l’unanimità non venga usata per apportare modifiche alla Costituzione repubblicana: sarebbe davvero un grave vulnus democratico se il cosiddetto “parlamento dei nominati” ― quello che ha una composizione che è frutto di una legge elettorale che passerà alla storia con la definizione di “Porcata” affibbiatagli dal suo stesso relatore ― dovesse decidere, a fine legislatura, di sfruttare la situazione emergenziale per apportare dei cambiamenti alla Legge Fondamentale; cambiamenti che, una volta approvati con maggioranza dei due terzi, non sarebbe nemmeno possibile sottoporre a referendum confermativo. Se davvero è necessario apportare delle modifiche alla Costituzione della Repubblica ― e chi scrive non pensa che questo sia il momento storico per affrontare un discorso del genere ― o il processo si realizza in un parlamento in cui tutte le istanze politiche espresse dalla comunità nazionale hanno una propria rappresentanza, proporzionata al consenso registrato nelle urne; oppure se (come oggi) il parlamento è eletto con un sistema che sovrastima le maggioranze relative ed esclude le proposte politiche che non hanno ottenuto alle elezioni un consenso reputato sufficiente, la modifica deve essere approvata senza far ricorso a quella maggioranza qualificata che impedirebbe la richiesta di referendum confermativo, a fronte di un eventuale diffuso malcontento popolare su uno o più aspetti della riforma costituzionale. Questo ci sembra un aspetto tutt’altro che trascurabile e del tutto indipendente dalla questione economica che è alla base dell’emergenza da affrontare e risolvere in tempi stringenti. Di conseguenza, l’auspicio è che la modifica dell’art. 81 Cost. e la conseguente “Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale” rappresentino un caso eccezionale (4) e non l’inizio di una vasta opera di riscrittura del patto costituente.

L’altra questione di metodo, poi, è invece squisitamente economica. Anche qui è bene essere molto chiari e netti: questa idea, veicolata ossessivamente dai grandi media, che c’è un unico modo per affrontare e risolvere il rischio economico che il nostro Paese deve affrontare a causa di una manovra speculativa senza precedenti, che ― a quanto pare ― è in grado di mettere in ginocchio la terza economia d’Europa e una delle economie più avanzate di tutto il pianeta, è semplicemente ridicola. Un processo di risanamento del bilancio pubblico, che sia anche in grado di garantire una crescita economica, può essere realizzato in diverse maniere. Se l’obiettivo è il risanamento e i vincoli comunitari (oltre che le contingenze economiche) ce lo impongono, nessuno può imporre invece la negazione di un margine di scelta politica, più o meno ampio, su tempi e modi di quest’opera di risanamento. In concreto: un Paese ricco, come è ricca l’Italia, può risanare il proprio bilancio non solo riducendo le spese, ma anche incrementando le entrate. Può farlo. Senza nemmeno aumentare le tasse, se solo si riuscisse a recuperare strutturalmente una quota rilevante di quegli almeno 250 miliardi di imponibile evaso annualmente dai contribuenti infedeli (5). Può farlo, inoltre, rimodulando il prelievo fiscale. Come? Andando ad agire, ad esempio, su quel 10% di cittadini che detengono quasi la metà della ricchezza del Paese (6). Può farlo, infine: aggredendo la rendita: non solo quella finanziaria, ma anche quella immobiliare, ovvero quei circa 1700 miliardi di euro di patrimonio di seconde, terze e ennesime case (7) che verosimilmente vanno periodicamente a incrementare gli accumuli patrimoniali di quel famoso 10% più ricco ed in cui, probabilmente, si va a concretizzare anche buona parte di quella quota annuale di imponibile evaso, che, evidentemente, non si trasforma in investimenti produttivi, stante la sostanziatale stagnazione che affligge l’Italia da ormai troppi anni.

Fatte queste dovute precisazioni, possiamo dunque addentrarci nel merito della dichiarata riflessione e verificare, quindi, “se”, “come” e “perché” la strategia, diciamo così, centrista, del Partito democratico è una strategia suicida e per quali motivi essa rappresenta, in realtà, un vero e proprio trionfo di quelle stesse logiche berlusconiane, che larga parte dell’elettorato effettivo e potenziale del Pd ha combattuto e osteggiato in questi anni.

Giuseppe D'Elia


«Ci conviene perdere?!?
Ma come ci conviene perdere?
In che senso?» 
___________________________________________________________________
(1) http://www.youtube.com/watch?v=HhBfw1nATJE&t=5m09s

(2) http://www.youtube.com/watch?v=uweH8Qijuzw

(3) http://bit.ly/vuAwQ9

(4) http://temi.repubblica.it/espresso-open-politix/2011/12/02/pareggio-di-bilancio-in-costituzione-ok-unanime-dalla-camera/ + http://www.lavoce.info/dossier/pagina2977.html

(5) http://friendfeed.com/seideegiapulp/c93788d3/al-13–5-l-evasione-media-degli-italiani-nel-2010

(6) http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/12/20/banca-ditalia-il-45-della-ricchezza-in-mano-al-10-della-famiglia/82840/

(7) http://www.linkiesta.it/patrimoniale-immobili-tassa-ricchezza

mercoledì 26 ottobre 2011

Uniti per un cambiamento globale: socialismo o barbarie?/3


(segue) Tirando le fila del discorso, restano alcuni nodi delicatissimi da sciogliere: in primo luogo, va chiarito se è lecito discutere di vere e proprie istanze rivoluzionarie e se è possibile volgere in positivo la comune matrice anti-capitalista, recuperando — con lessico marxiano — l’alternativa tra socialismo o barbarie; secondariamente (e correlativamente) va posta la questione del come perseguire le suddette istanze.

Va detto subito che, ancora una volta, il movimento è oggettivamente eterogeneo e che queste diversità possono frenare non poco la spinta unitaria, tuttavia: comune è la domanda di forme nuove del vivere associato; comune è il bisogno di maggiore democrazia; comune è la consapevolezza che se il capitalismo è come un virus, di cui le crisi periodiche costituiscono soltanto i sintomi, mai la società potrà rigenerarsi, fintanto che ci si adopererà soltanto per lenire la sintomatologia, lasciando al virus la possibilità di continuare a proliferare.

Che gli sviluppi di queste premesse abbiano carattere spiccatamente rivoluzionario è, dunque, un dato di fatto. Che questa comune matrice anti-capitalista possa dar luogo a una diffusa rinascita (attualizzata) delle tematiche marxiane è invece soltanto uno dei possibili esiti di queste lotte.

Più che cercare di comprendere quante e quali delle tante sigle che direttamente si riallacciano al pensiero di Marx e dei suoi interpreti, in questa sede, può allora essere utile verificare se un rinnovato ricorso alle categorie marxiane possa agevolare o meno il realizzarsi del cambiamento sociale comunemente auspicato dal movimento.

Va verificato, insomma, se c’è un embrione di coscienza di classe alla base della dichiarata ricerca di unità, volta alla realizzazione di un cambiamento globale che permetta di uscire definitivamente dalla perdurante situazione di crisi economica.

Bisogna quindi ritornare, innanzi tutto, sulla famigerata crisi.

Vladimiro Giacchè, recentemente, ha fatto il punto della situazione, in maniera molto sintetica, ma chiarissima (seppur circoscrivendo il tutto al caso italiano):
«A oltre quattro anni dall’inizio della crisi continuano i salvataggi di banche e assicurazioni con soldi pubblici: l’ultimo caso, di pochi giorni fa, riguarda Dexia e costerà 90 miliardi di euro a Belgio, Francia e Lussemburgo. In compenso si lascia marcire la crisi greca, dopo averla aggravata con il piano di austerity draconiano che ha accompagnato il “salvataggio” del 2010. I bilanci pubblici in Europa sono stati prima appesantiti accollando ad essi il debito privato, e ora si tenta di alleggerirli smantellando i sistemi di welfare e privatizzando a più non posso. Intanto si assiste ad uno spostamento di sovranità dagli Stati a una sorta di terra di nessuno in cui chi detta le regole sono di fatto i governi degli Stati “forti” dell’Unione o addirittura la Banca Centrale Europea. Quest’ultima, non contenta di far male il proprio lavoro (vedi l’aumento dei tassi di interesse a luglio), ha pensato bene di cominciare a dettare agli Stati le politiche economiche e sociali: richiedendo all’Italia — con una lettera che avrebbe dovuto rimanere segreta “per non turbare i mercati” — di effettuare la “privatizzazione su larga scala” dei servizi pubblici, ridurre gli stipendi pubblici e rendere più facili i licenziamenti». (10)
Dopo aver spiegato poi perché va assolutamente scongiurato il rischio default, onde evitare un ulteriore peggioramento delle condizioni esistenziali delle classi lavoratrici, Giacchè pone l’accento su una questione fondamentale:
«C’è però un altro modo per leggere lo slogan “Noi il debito non lo paghiamo”: mettendo l’accento sul “noi”. Questa è invece una rivendicazione sacrosanta, soprattutto nei confronti di una finanziaria che — tra colpi di scure alla finanza pubblica, abolizione di gran parte delle detrazioni fiscali e aumento delle imposte indirette — grava in gran parte su chi guadagna di meno e paga le tasse, mentre è in arrivo l’ennesimo condono-regalo per gli evasori. È giusto esigere che la crisi la paghi chi evade 120 miliardi di euro all’anno e chi detiene grandi patrimoni, e che i risparmi, anziché sugli asili nido e sulle scuole, si facciano sulle spese militari (26 miliardi) e sullo sperpero di denaro pubblico per le imprese private (30 miliardi all’anno). Avanzare oggi questa rivendicazione equivale a introdurre nelle dinamiche di questa crisi un vincolo nuovo: l’indisponibilità di chi sinora ne ha pagato il prezzo a continuare così».
Va precisato, in proposito, che non a caso la formula più esplicita dello slogan citato — formula che il movimento ha iniziato a privilegiare, proprio per scongiurare le (interessate) accuse di irresponsabilità — è questa: “Noi la vostra crisi non la paghiamo”. In questa contrapposizione, in questa presa di coscienza che c’è un “Noi” maggioritario che, unendosi, può ribaltare la condizione di soggezione nei confronti di quel “Voi” minoritario ed elitario, c’è senz’altro un seme di un rinnovato conflitto di classe che potrebbe germogliare, contrapponendo apertamente i detentori di capitali ai lavoratori subordinati. 

Ma, allo stato attuale delle cose, di più davvero non si può dire, senza arrivare a conclusioni troppo arbitrarie.

Può sottolinearsi, piuttosto, come il predetto slogan si vada a riempire di contenuti:
«Non è vero che tutto il debito va ripagato, il popolo ha l’obbligo di restituire solo quella parte che è stata utilizzata per il bene comune e solo se sono stati pagati tassi di interesse accettabili. Tutto il resto, dovuto a ruberie, sprechi, corruzione, è illegittimo e immorale, come hanno sempre sostenuto i popoli del Sud del mondo.
Per questo chiediamo un’immediata sospensione del pagamento di interessi e capitale, con contemporanea creazione di un’autorevole commissione d’inchiesta che faccia luce sulla formazione del debito e sulla legittimità di tutte le sue componenti. Le operazioni che dovessero risultare illegittime, per modalità di decisione o per pagamento di tassi di interesse iniqui, saranno denunciate e ripudiate come già è avvenuto in altri paesi.
La sospensione sarà relativa alla parte di debito posseduto dai grandi investitori istituzionali (banche, assicurazioni e fondi di investimento sia italiani che stranieri) che detengono oltre l’80% del suo valore. I piccoli risparmiatori vanno esclusi per non compromettere la loro sicurezza di vita.
Contemporaneamente va aperto un serio e ampio dibattito pubblico sulle strade da intraprendere per garantire la stabilità finanziaria del paese secondo criteri di equità e giustizia.
Almeno cinque proposte ci sembrano irrinunciabili:
- riforma fiscale basata su criteri di tassazione marcatamente progressiva;
- cancellazione dei privilegi fiscali e seria lotta a ogni forma di evasione fiscale;
- eliminazione degli sprechi e dei privilegi di tutte le caste: politici, alti funzionari, dirigenti di società;
- riduzione delle spese militari alle sole esigenze di difesa del paese e ritiro da tutte le missioni neocoloniali;
- abbandono delle grandi opere faraoniche orientando gli investimenti al risanamento dei territori, al potenziamento delle infrastrutture e dell’economia locali, al miglioramento dei servizi sociali col coinvolgimento delle comunità». (11)
Questa progettualità politica, unita ad altre ben note proposte — si pensi soprattutto alle ipotesi di tassazione sulle transazioni finanziarie o Tobin Tax (12) e al cosiddetto “reddito di cittadinanza” (13) — dimostra inequivocabilmente che la distanza, innegabile, che c’è (in Italia, in particolar modo) tra i movimenti e il parlamento segnala una fortissima assenza di rappresentatività, che dovrebbe preoccupare ogni sincero democratico.
«Era necessario farci strada con la violenza, con il sacrificio, con il sangue; era necessario stabilire un ordine e una disciplina voluti dalle masse, ma impossibili da ottenere con una propaganda all’acqua di rose, con parole, parole e ancora parole e con ingannevoli battaglie parlamentari e giornalistiche». (14)
Chi sa che queste parole sono state scritte da Benito Mussolini, nel capitolo della sua autobiografia intitolato al “giardino del fascismo”, infatti, di fronte alle persistenti tracce di esaltazione di una violenza che — come si è già sottolineato in precedenza — produce solo ulteriore regresso sociale, non può non pensare immediatamente alla massima di Michel Foucault sul
«come fare per non diventare fascisti anche se (soprattutto se) si crede di essere militanti rivoluzionari». (15)
Viene dunque conclusivamente in rilevo la questione del metodo e delle forme con cui praticare la lotta politica per il progresso sociale, nel dato momento storico.

Qui va detto senza tanti giri di parole che la scelta di forme di lotta nonviolente, risponde non certo a preconcette adesioni dogmatiche a petizioni di principio, ma ad una ponderata valutazione strategica.

Cosa c’è di più rivoluzionario del perseguimento e del raggiungimento di stabili obiettivi di progresso sociale senza spargimenti di sangue? Già l’ovvia risposta a questa domanda — oltre a quanto già detto in termini di reazione repressiva — dovrebbe incentivare la scelta di queste pratiche.

Ma c’è di più: per quanto lo sviluppo di internet abbia aperto nuovi e innumerevoli canali di accesso alla comunicazione di massa — che ora non è più esclusivamente verticale, come nei decenni scorsi — la forza di penetrazione dei grandi media (e delle televisioni, in particolar modo) rimane ancora preponderante. Principalmente, per la capacità di produrre meccanismi di identificazione. Ciò che consente di comprendere, da un lato, perché le masse abbiano potuto tollerare (e ancora tollerano) per decenni che, in determinate regioni del pianeta, altri esseri umani debbano convivere con guerre, pestilenze e carestie e, dall’altro, e per converso, come sia possibile che l’incendio di un’automobile nel corso di una manifestazione di protesta, talvolta, produca ostilità verso l’intero movimento. In quest’ultimo caso, opera un meccanismo identificativo (“quell’auto poteva essere la mia!”) che è del tutto assente nella prima ipotesi (“succede lontano da qui, ergo non può succedere anche a me”).

Riflettendo bene su come operano questi potenti meccanismi emotivi, forse, la scelta strategica di privilegiare forme di lotta nonviolente e pratiche inclusive dovrebbe essere compresa e meglio apprezzata da tutti.

E, in effetti, è proprio qui che un recupero del lessico marxiano potrebbe rivelarsi preziosissimo per abbandonare la logica dello scontro di piazza, riconciliandosi anche con quel famoso e controverso testo pasoliniano, in cui l’autore simpatizzava coi poliziotti “figli di poveri”, contrapponendoli ai giovani manifestanti (benestanti) “figli di papà”. (16)

In un epoca come quella attuale di diffuso e progressivo impoverimento, infatti, dovrebbe essere molto più semplice comprendere che il poliziotto, servitore dello Stato, è un lavoratore subordinato esattamente come lo sono quelli che stanno riempiendo le piazze di mezzo mondo, Italia inclusa: i lavoratori, i salariati, i precari, i cassintegrati, i pensionati, gli inoccupati, le tante formule nuove (e spesso vuote) create ad arte per frammentare e dividere quel (simbolico) 99% che costituisce l’ossatura di quella maggioranza soggiogata dalla minoranza detentrice dei capitali accumulati e del Potere.

Provare allora a spezzare il giogo di un copione di scontri, purtroppo, già messo in scena infinite volte, cercando di instaurare un dialogo che renda partecipi e solidali i lavoratori dei corpi di polizia, con le ragioni della classe lavoratrice nelle sue più diverse forme, non è forse la premessa basilare per la riuscita di una rivoluzione pacifica?


Il 15 ottobre, in piazza, c’è stato anche questo (17): qualche primo, timidissimo (e poco pubblicizzato) tentativo di invertire la tendenza allo scontro, instaurando un dialogo tra lavoratori; un dialogo basato sulla “solidarietà di classe”, insomma. Così come, a scontri avvenuti, si è avuto modo di leggere anche una severa (auto)critica, svolta dall’interno, da un funzionario di polizia del Silp CGIL, che non ha avuto remore nel denunciare (18) errori di gestione, a suo avviso, evidentissimi, stante la conclamata inefficacia del modello “militare” di ordine pubblico, in situazioni come quella di cui, qui, si sta discutendo.

Come è evidente, dunque, anche in Italia, nonostante tutto, ci sono ancora ampi margini per scrivere assieme una pagina fondamentale della storia dell’umanità.

Peccato solo che, in una fase politica di rinnovato fermento sociale, i principali partiti politici (soprattutto quelli presenti in Parlamento), fin qui, abbiano preferito restare a guardare, mostrando di non aver per nulla compreso quello che sta succedendo attorno a loro e al loro nauseante immobilismo.

Giuseppe D'Elia


«Bourgeois society stands at the crossroads,
either transition to socialism 
or regression into barbarism». 

martedì 25 ottobre 2011

Uniti per un cambiamento globale: socialismo o barbarie?/2


(segue) Mobilitazione globale permanente, dunque: unire le masse popolari radicalmente critiche verso il modello economico-sociale imperante, con l’obiettivo di realizzare forme più compiute di democrazia, attraverso la pacifica occupazione delle principali piazze dei diversi Paesi.

Tutto limpido e alla luce del sole.

Messo nero su bianco, anzi:
«Uniti per un cambiamento globale: più di 1.000 città – 82 paesi. Il 15 Ottobre gente di tutto il mondo prenderà le strade e le piazze.
Dall’America all’Asia, dall’Africa all’Europa, la gente si sta sollevando per rivendicare i propri diritti e chiedere una democrazia autentica. Ora, è arrivato il momento di unirci tutti in una protesta globale non violenta. I poteri dominanti lavorano a beneficio di pochi, ignorando la volontà di una vasta maggioranza e senza tenere conto del costo umano ed ecologico che dobbiamo pagare. Questa situazione intollerabile deve finire. Uniti in una sola voce, faremo sapere ai politici e alle élite finanziarie a cui sono asserviti, che ora siamo noi, i popoli, che decideremo il nostro futuro. Non siamo merce nelle mani di politici e banchieri che non ci rappresentano. Il 15 Ottobre ci troveremo in piazza per mettere in moto il cambiamento globale che vogliamo. Manifesteremo pacificamente, dibatteremo e ci organizzeremo fino a riuscirci. È ora che ci uniamo. È ora che ci ascoltino. People of the world, rise up (…)!» (5).
Va sottolineato che il contenuto dell’appello internazionale, testé trascritto, in Italia, raccoglieva un diffuso consenso, testimoniato, chiaramente, ad esempio, dal contenuto di questo pubblico manifesto di adesione:
«Uniti per l’alternativa ha scelto fin dall’inizio di raccogliere la sfida degli indignados globali, perché è proprio la ricerca, paziente e faticosa, dell’unità, della ricomposizione delle lotte, la cifra distintiva del suo percorso. Connettere le differenze, questo è il primo obiettivo da praticare per invertire la rotta della crisi!
(…) Chiaramente, l’unità da sola non è sufficiente. Non basta combinare le resistenze operaie con le lotte studentesche o in difesa dei beni comuni, c’è bisogno di un progetto comune di trasformazione. L’alternativa è questo orizzonte, questo desiderio di cambiamento che si fa programma politico concreto: la capacità di egemonia dei movimenti — ampiamente dimostrata dai risultati referendari di giugno — non può non prendere la forma di un processo costituente di un nuovo modello sociale, economico e politico.
(…) In questo senso è decisivo che le manifestazioni siano partecipate da centinaia di migliaia di persone. I numeri da soli non bastano, di questo ne siamo certi, ma di fronte alla violenza della finanza e delle banche, i numeri sono la prima condizione per cominciare ad affermare un rapporto di forza favorevole. Ci vuole poi una mobilitazione permanente, che sappia fare tesoro delle straordinarie esperienze americane di questi giorni, oltre che della primavera araba e delle mobilitazioni spagnole. (…)» (6).
Cosa doveva succedere, allora, nel nostro Paese, il 15 ottobre? Far confluire nella capitale centinaia di migliaia di persone, occupare con questa massa una delle piazze storiche delle proteste popolari (piazza San Giovanni), piantare le tende in loco e difendere con tecniche di lotta nonviolenta questo neonato presidio permanente di democrazia, in cui sarebbero stati meglio definiti gli obiettivi politici immediati della protesta popolare e i metodi pacifici e democratici per raggiungerli e mantenerli.


Cosa ha impedito che tutto questo potesse accadere? Un’esplosione improvvisa di violenza nichilista. Una furia devastatrice che ha dapprima spezzato il corteo e poi lo ha costretto a disperdersi e ad abbandonare il progetto iniziale, visto che nella piazza e nelle strade attigue si era, ormai. scatenata una battaglia con le forze dell’ordine che, di fatto, vanificava ogni possibilità di raggiungere gli obiettivi programmati.

Soffermarsi sul “cosa” ha impedito la riuscita della manifestazione più che soffermarsi a lungo a dibattere sul “chi” ha determinato tutto questo è mero buon senso, dato che l’unico elemento certo e indiscutibile, al momento, è il rapporto numerico tra fautori della devastazione e manifestanti che invece avrebbero preferito far ricorso a forme di lotta nonviolente.

Su questo punto, Marco Rovelli ci offre una ricostruzione che costituisce un ottimo punto di partenza per una più attenta analisi della vicenda:
«Eravamo tanti. La narrazione comincia da qui. Di questo dobbiamo far memoria. Eravamo tanti, un fiume in piena. E dobbiamo andare oltre, e prendere lezione, e costruire pratiche di movimento che adesso non ci sono.
Non è questione di violenza e non violenza, non è questa la questione. (Che poi, nulla è più violento del “sistema”, oggi, che ci sta portando via presente e futuro, nostro e del pianeta: ogni altra violenza, oggi, è in scala inferiore rispetto a questa). La violenza accade, può accadere, la Storia ce lo insegna che a volte deve accadere. A certe condizioni: se è razionale rispetto allo scopo, dunque sensata e può produrre effetti reali in un contesto di strategia; se non vi sono altri mezzi possibili (e questo, per dire, esclude le autolegittimazioni di quella parte di movimento che rivendica gli scontri paragonando le pratiche della piazza romana a quelle di piazza Tahrir). Non siamo in presenza di queste condizioni. Ben miope è la mistica degli scontri di piazza. Che non si inseriscono in alcuna strategia politica, che non producono alcun effetto positivo, che contribuiscono a distruggere un movimento e non a costruirlo. In che cosa oggi siamo più vicini alla demolizione del sistema? In nulla.
E ancora — rispetto alla “narrazione” ufficiale dei media — non si parli di black bloc, con la retorica buoni indignati/cattivi venuti da fuori. (…). Non si parli, perciò, neppure di infiltrati, ciò che costituisce per molti del movimento un bell’alibi.
La questione principale è un’altra. È la questione delle pratiche. Che devono essere condivise. Non si parassita un corteo che ha altri obiettivi e convocato con altre pratiche, non gli si impone la propria minoritaria presenza. Questa è la violenza peggiore. Imporre agli altri le proprie pratiche. Prendendo la testa in 300 di una manifestazione di 300mila persone e segnando il destino di quella manifestazione. È una questione di democrazia. (…)» (7).
Le riflessioni di Rovelli sono importanti — anche se non condivisibili al cento per cento — perché evidenziano in maniera molto chiara e sintetica le tante (e intricate) questioni che l’esplosione di violenza incontrollata del 15 ottobre italiano lasciano aperte.

Mettendo un attimo da parte la questione delle forme di lotta politica (lotte nonviolente vs. uso della forza), indubbiamente, a quella minoranza che ha imposto la logica dello scontro di piazza a quella della piazza occupata pacificamente e trasformata in presidio di rinnovamento democratico, vanno fatte notare alcune cose.

Innanzi tutto, appunto, il loro imporsi come un’oligarchia di segno opposto a quella che questo nascente movimento di massa sta cercando di combattere democraticamente; con il che il movimento — almeno in Italia — finisce col rimanere schiacciato tra due oligarchie: quella capitalista e quella nichilista.

Senz’altro quella rabbia diffusa che sta alla base di comunicati come quello che apertamente inneggiava all’insurrezione (8) è ben sintetizzata in considerazioni di questo tipo:
«se c’era un paese che doveva trasformare l’indignazione in incazzatura di massa, quello era proprio l’Italia, che vive un presente veramente penoso». (9)
Ma se questa rabbia si spiega con la particolarità della situazione politica italiana, che non sembra assolutamente in grado di offrire speranze di concreto miglioramento né ai lavoratori precari, né a chi è senza lavoro, in ogni caso, tutto ciò non giustifica una violenza che resta fine a se stessa.

Se pertanto il nucleo centrale della critica di chi sceglie lo scontro e la devastazione si può riassumere in una questione di inefficacia delle forme di lotte nonviolente: se, insomma, il problema è che i cortei e le manifestazioni a nulla servirebbero, perché la situazione di chi protesta, poi, non migliora mai, quando la protesta volge al termine, l’autolesionismo della scelta di segno opposto diventa innegabile.

Diversamente da come scrive Rovelli, infatti, non solo la devastazione di piazza non serve a demolire il sistema, ma addirittura fa ulteriormente regredire le condizioni di vita delle classi più disagiate, dato che al disagio economico, si aggiunge la risposta repressiva dell’ordine costituito che travalica le responsabilità dei singoli, finendo col criminalizzare (e non solo da un punto di vista mediatico) la protesta in quanto tale.

In altre parole, al danno di una condizione di vita particolarmente disagiata si viene così ad aggiungere la beffa della sempre più difficile possibilità di costruire una proposta di alternativa politica che sia realmente in grado di invertire la tendenza degli ultimi decenni: quella di privilegiare, sempre e comunque, gli interessi dei potentati economici (che accumulano, per generazioni, i capitali) a danno di quelli delle masse dei lavoratori (che restano escluse dal processo di accumulazione capitalistica).

In questo senso, quindi, se si riconosce — come anche Rovelli fa — il potenziale distruttivo, verso le ragioni della protesta e della stragrande maggioranza di coloro che la sostengono, delle pratiche di devastazione, diventa prioritario scegliere democraticamente un metodo politico di lotta e praticarlo coerentemente fino in fondo.

(continua)

Giuseppe D'Elia


«Bourgeois society stands at the crossroads,
either transition to socialism 
or regression into barbarism». 

lunedì 24 ottobre 2011

Uniti per un cambiamento globale: socialismo o barbarie?/1


C’è un interrogativo che si impone oggi all’attenzione di chi vuole realmente capire quello che sta succedendo in mezzo mondo, man mano che la crisi economico-finanziaria degli ultimi anni continua a dispiegare i propri effetti regressivi sulle vite di sempre più ampie fasce di popolazione: può esistere un modello economico-sociale, storicamente, non superabile da un’alternativa migliore?

Se l’economia capitalista genera forme sociali che garantiscono il benessere di una esigua minoranza di individui, mentre alle masse — a seconda della regione geografica in cui la sorte fa venire al mondo ciascun singolo — tocca la casuale alternativa tra una condizione esistenziale di persistente difficoltà e una prospettiva di vita in cui già la mera sopravvivenza è un lusso, insomma: com’è possibile che la messa in discussione del sistema economico rimanga sempre ai margini del dibattito politico mediatico?

Se si riflette sul significato degli slogan transnazionali e delle rivendicazioni politiche che stanno alla base delle ondate montanti di protesta, il dato comune che emerge è duplice: una generica matrice anti-capitalista e un diffuso bisogno di democrazia partecipata. In quel “We are the 99%”, dunque, c’è soprattutto una critica radicale a quella «forma di regime politico in cui il potere è nelle mani di pochi, eminenti per forza economica e sociale» (1), che corrisponde esattamente alla definizione di ciò che è un’oligarchia (capitalista).

D’altra parte, un’accusa agli oligarchi, alfieri del capitalismo finanziario, è testuale e nettissima in un recente intervento del premio Nobel per l’economia Paul Krugman:
    «i Masters of the Universe di Wall Street capiscono, nel profondo del loro cuore, quanto sia moralmente indifendibile la loro posizione. (…). Sono gente che è diventata ricca trafficando con complessi schemi finanziari che, lungi dal portare evidenti benefici economici agli americani, hanno contribuito a gettarci in una crisi i cui contraccolpi continuano a devastare la vita di decine di milioni di loro concittadini.
    Non hanno ancora pagato nulla. Le loro istituzioni sono state salvate dalla bancarotta dai contribuenti, con poche conseguenze per loro. Continuano a beneficiare di garanzie federali esplicite ed implicite — fondamentalmente, siamo ancora in una partita in cui loro fanno testa e vincono, mentre i contribuenti fanno croce e perdono. E beneficiano anche di scappatoie fiscali grazie alle quali, spesso, gente che ha redditi multimilionari paga meno tasse delle famiglie della classe media.
    Questo trattamento speciale non sopporta un’analisi approfondita e, perciò, secondo loro, non ci deve essere nessuna analisi approfondita. Chiunque metta in evidenza ciò che è ovvio, per quanto possa farlo in modo calmo e moderato, deve essere demonizzato e cacciato via. Infatti, più una critica è ragionevole e moderata, più chi la porta dovrà essere immediatamente demonizzato (…).
    Chi sono, dunque, gli antiamericani? Non i manifestanti, che cercano semplicemente di far sentire la propria voce. No, i veri estremisti, qui, sono gli oligarchi americani, che vogliono soffocare qualsiasi critica sulle fonti della loro ricchezza» (2).
Va specificato che l’analisi di Krugman — tanto lucida, quanto esplicita — si riferisce espressamente alle manifestazioni di protesta statunitensi: quelle ormai universalmente note come “Occupy Wall Street” (3), promosse da quel simbolico (e democratico) «99% che non tollererà più l’avidità e la corruzione del 1%»; un movimento che ha scelto di usare «la tattica rivoluzionaria della primavera araba» e di «incoraggiare l’uso della nonviolenza per massimizzare la sicurezza di tutti i partecipanti».

Qualcuno ha accostato questo neonato movimento a quello partito da Seattle, nello scorcio conclusivo del millennio scorso.

Molto interessanti, in proposito, le considerazioni di Naomi Klein, una delle più note figure di riferimento del movimento contro la globalizzazione capitalistica degli anni Novanta:
    «la più grande differenza che fa un decennio è che nel 1999 stavamo ereditando un capitalismo al culmine di un boom economico frenetico. La disoccupazione era bassa, i portafogli azionari erano gonfi. E i media erano ubriachi di denaro facile. Allora era tutto in fase di apertura, non di chiusura.
    Abbiamo evidenziato che la deregolamentazione che c’era dietro quella frenesia ha espresso il suo prezzo. Il danneggiamento degli standard del lavoro. Il danneggiamento degli standard ambientali. Le aziende stavano diventando più potenti dei governi e questo stava danneggiando le nostre democrazie. Ma a essere onesti, mentre i bei tempi scorrevano si imponeva di alimentare un sistema economico basato sull’avidità, almeno nei paesi ricchi.
    Dieci anni dopo sembra che non ci siano più paesi ricchi. Solo un sacco di gente ricca. Persone che si sono arricchite saccheggiando la ricchezza pubblica ed esaurendo le risorse naturali in tutto il mondo.
    Il punto è che ognuno oggi può vedere che il sistema è profondamente ingiusto e che sta sbandando fuori controllo. L’avidità senza freni ha demolito l’economia globale. E sta demolendo anche la natura. (…). La nuova normalità sono i disastri seriali: economici ed ecologici.
    Questi sono i fatti sul terreno. Sono così palesi, così evidenti, che è molto più facile entrare in contatto con il pubblico di quanto non lo fosse nel 1999, e per costruire il movimento velocemente.
    Sappiamo tutti che il mondo è capovolto: ci comportiamo come se non ci fosse una fine a ciò che è realmente finito — i combustibili fossili e lo spazio atmosferico per assorbire le loro emissioni. E ci comportiamo come se ci fossero limiti rigorosi e inamovibili a quanto è in realtà abbondante — le risorse finanziarie per costruire il tipo di società della quale abbiamo bisogno.
    Il compito del nostro tempo è quello di cambiare questa situazione: per sfidare questa falsa scarsità. Insistere sul fatto che possiamo permetterci di costruire una società decente e inclusiva — e al tempo stesso, rispettare i limiti reali di ciò che la terra può sopportare.
    I cambiamenti climatici ci dicono che dobbiamo fare questo con una scadenza. Questa volta il nostro movimento non può distrarsi, dividersi, o essere bruciato o spazzata via dagli eventi. Questa volta dobbiamo avere successo. E non sto parlando di regolamentare l’operato delle banche e aumentare le tasse ai ricchi, anche se questo è importante.
    Sto parlando di cambiare i valori di base che governano la nostra società. Quest’obiettivo è difficile da inserire in una singola rivendicazione mediaticamente efficace, ed è altrettanto difficile immaginare come portarlo avanti. Ma il fatto di essere difficile non la rende meno urgente (…)» (4).

Con queste premesse, dovrebbe essere ormai chiaro ed evidente che la giornata di mobilitazione planetaria convocata per il 15 ottobre scorso, all’insegna dello slogan “United for global change” (5) aveva un significato che i media mainstream nazionali hanno completamente occultato, riducendo la copertura informativa pressoché esclusivamente alla cronaca e all’analisi degli scontri di piazza.

Scontri sui quali è doveroso soffermarsi, ma non certo a discapito delle ragioni della protesta.

(continua)

Giuseppe D'Elia


«Bourgeois society stands at the crossroads,
either transition to socialism 
or regression into barbarism». 
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giovedì 15 settembre 2011

Prodromi e sviluppi politici dell'undici settembre: da Berlino a Breivik, un viaggio nella crisi epocale delle sinistre/3


(segue) Come il lettore più attento avrà di certo notato, il discorso sugli effetti politici di lungo periodo della reazione americana agli attacchi dell’undici settembre, da ultimo, si è particolarmente incentrato sulla situazione europea. Questo perché alla logica dello scontro di civiltà e alla dottrina Bush della guerra preventiva permanente, quantomeno sul piano simbolico, gli USA, diversamente dall’Europa, hanno già provato a reagire, scegliendo di eleggere il primo Presidente di origini africane della storia del loro paese. Ovviamente, non rientra certo nell’economia di questo discorso una disamina accurata dell’operato del Presidente Obama. Tuttavia il Paese vittima degli attentati, di fatto, ha già scelto di voltare pagina. E il cambiamento proposto da Obama, almeno programmaticamente, nel suo contesto, risulta (nella forma) più ‘rivoluzionario’ delle attuali proposte delle sinistre riformiste europee. Il che può essere un discreto indizio a favore della tesi delle precondizioni più favorevoli al dilagare delle destre xenofobe e dell’individualismo esasperato, laddove le sinistre erano già politicamente più deboli. Infatti, l’impatto del crollo del mondo diviso in due blocchi, logicamente, è stato molto più devastante per quella sinistra che (più o meno apertamente) aveva flirtato col marxismo ortodosso, che non per la sinistra americana.

Sia come sia, l’inadeguatezza di una sinistra che sembra ormai incapace d’immaginare il futuro e di progettare un mondo e una società diversi e migliori, se non fosse già comprovata da quanto osservato fin qui, si rivela con tutta evidenza nel modo in cui le sinistre (soprattutto europee) non riescono ad affrontare la recente crisi economica.

Qui emerge il dramma di una classe politica che cede completamente il campo del discorso pubblico all’irrazionalità della controparte: di una destra che, in Italia, ad esempio, si vanta di saper “parlare alla pancia” dei cittadini elettori.

E se alla deliberata e dichiarata scelta di una parte politica che si rivolge ai bassi estinti, l’unica risposta sensata è la denuncia costante delle sue innumerevoli contraddizioni, la domanda inevasa non può che essere la seguente: perché queste enormi contraddizioni non vengono sempre denunciate come tali, ma anzi talvolta vengono assecondate?


In concreto, sul punto specifico che adesso si sta considerando: perché si accetta di descrivere una crisi finanziaria come una sorta di calamità naturale a cui non si può far altro che cercare di porre un qualunque rimedio, una volta che questa sia capitata?
Perché invece, ad esempio, non si dà il dovuto risalto alle lucide considerazioni svolte in proposito da un sociologo di chiara fama, quale è Luciano Gallino (14):
«Uno dei problemi di fondo di questa crisi è che le banche hanno contratto enormi debiti a causa di errate iniziative borsistiche come l’acquisto di titoli tossici. Debito che si è riversato sui deficit dei governi grazie ai salvataggi pubblici. Dal 2008 tanto negli Stati uniti quanto in parecchi Paesi europei, certamente nel Regno unito, in Germania e Francia, si sono fatte fior di politiche keynesiane “imbastardite” per salvare le banche. L’economia è stata salvata grazie all’intervento massiccio degli Stati, valutato tra soldi spesi e impegnati intorno ai 12–15 trilioni di dollari» (15),
ragion per cui oggi
«il finanzcapitalismo ha disvelato il suo ultimo capolavoro: rappresentare il crescente debito pubblico degli Stati non come l’effetto di lungo periodo delle sue proprie sregolatezze e dei suoi vizi strutturali, largamente sostenuti e incentivati dalla politica, bensì come l’effetto di condizioni di lavoro e di uno stato sociale eccessivamente generosi» (16).
Non è più che ragionevole ipotizzare che (almeno in Italia e in Europa) delle sinistre che non avessero ripudiato integralmente la questione della lotta di classe oggi non avrebbero alcuna difficoltà nel denunciare e nel combattere fermamente la dissennatezza e le mistificazioni di un capitalismo finanziario che, per usare alcune note ed efficacissime espressioni, sta facendo una vera e propria “lotta di classe alla rovescia”, cercando di instaurare una sorta di “socialismo per ricchi”?


E, ritornando su quanto detto in precedenza, di fronte al dilagare di una destra xenofoba che descrive i fenomeni migratori come una sorta di barbara e temibile invasione, perché la sinistra non ha il coraggio di denunciare l’assurdità di un modello economico che si fonda sulla libera circolazione delle merci e dei capitali, ma che poi vuole ostacolare (o addirittura impedire) l’altrettanto libera circolazione delle persone?

Perché la cosiddetta sinistra riformista si rifiuta di mettere seriamente in discussione il modello economico che genera il fenomeno migratorio di massa, rendendo così più difficile la creazione di un mondo aperto, accogliente e senza frontiere?

Perché le sinistre non riescono, cioè, a fare fronte comune nemmeno sull’ovvia considerazione che in un sistema economico che fosse in grado di garantire davvero il benessere diffuso di ogni area del pianeta, il fenomeno delle migrazioni di massa (e le susseguenti questioni di ordine pubblico che vi si potrebbero riconnettere), semplicemente, svanirebbe nel nulla, restando circoscritto alle eccezionali ipotesi di catastrofi naturali di immani dimensioni e rendendo, quindi, ogni individuo libero di scegliere dove vivere, senza che ciò debba più determinare alcun problema di insicurezza collettiva (reale o anche solo percepita)?
Insomma: se le sinistre europee, oggi, non hanno la capacità di far comprendere facilmente ai popoli che si propongono di guidare quanto sia stato folle appaltare (e in esclusiva) la questione dello sviluppo economico al mercato e far scorrere un intero decennio, inventandosi nuove crociate e nemici inesistenti da andare a combattere in giro per il mondo, guerreggiando fuori e innalzando mura e fossati immaginari dentro, non è anche e soprattutto perché esse stesse hanno ceduto al fascino della telepolitica dei bassi istinti e dell’immediato consenso da capitalizzare nei sondaggi d’opinione, accontentandosi di fare (quando è possibile) un po’ di amministrazione spicciola e nulla più?

L’auspicio conclusivo, allora, è che i tanti e diversi spunti di un discorso complicatissimo che qui abbiamo soltanto potuto abbozzare, ma che altri, in maniera più compiuta e autorevole, stanno già sviluppando, possano trovare presto una più ampia diffusione, diventando il cuore della rinascita delle sinistre che finalmente si riconnettono col proprio popolo. Un popolo di lavoratori, per ciò stesso maggioritario e in perenne conflitto con gli interessi del capitale, ma anche un popolo che sa benissimo che non c’è necessariamente un contrasto insanabile tra libertà e uguaglianza e che, forse, comprende altrettanto bene che la giusta sintesi va trovata nel valore rivoluzionario disperso: la fratellanza; da declinare però non più in chiave nazionale, ma planetaria (ossia: fratellanza del genere umano).

Se le sinistre riusciranno a rifondarsi su base umanista e laburista – socialdemocratica e keynesiana o socialista e neo-marxiana, a seconda di sviluppi che qui è semplicemente impossibile prevedere – forse, le cose potranno davvero cambiare negli anni a venire.

Diversamente, si rimarrà ancora a lungo schiavi della logica delle due destre, una dal volto feroce, l’altra dal volto un po’ più umano, ma entrambe piegate a difendere i medesimi interessi economici: quelli del grande capitale finanziario. L’unico elemento, tra l’altro, che sia in grado di trarre profitto da una logica di guerra permanente e da un ‘libero’ mercato generatore di infiniti conflitti e mostruose diseguaglianze. Ciò che, in ultima analisi, è accaduto nel decennio appena trascorso.


Giuseppe D'Elia


«Every nation, in every region, now has a decision to make. 
Either you are with us, or you are with the terrorists». 
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(14) http://it.wikipedia.org/wiki/Luciano_Gallino

(15) http://www.controlacrisi.org/joomla/index.php?option=com_content&id=17453&view=article

(16) http://temi.repubblica.it/micromega-online/la-civilta-del-denaro-in-crisi/