giovedì 29 luglio 2010

Obbligo di rettifica, blogger a rischio


Sembrerà una nemesi paradossale, ma dopo che la rete si è mobilitata in massa per impedire che la cosiddetta legge bavaglio condizionasse la libertà di stampa, ora che le norme più controverse del famigerato ddl sulle intercettazioni vengono finalmente corrette, gli unici a restare imbavagliati sono proprio i blogger; quasi presi in giro dalla persistente riproposizione di quell'irragionevole estensione dell'obbligo di rettifica, previsto dalla legge per la stampa del 1948, a tutti i siti informatici, indiscriminatamente.
In proposito, esattamente un anno fa, questa rubrica già segnalava le prime iniziative di protesta della rete. Iniziative che, tra l'altro, hanno poi trovato in Parlamento un'interlocuzione bipartisan. Il prontamente ribattezzato "comma ammazza-blog" (il comma 29) è stato dunque fatto oggetto di due diverse proposte di modifica, targate Pd e Pdl, a firma, rispettivamente, dei deputati Roberto Zaccaria e Roberto Cassinelli. Quest'ultimo, addirittura, nella stesura del suo emendamento si è avvalso della collaborazione del web, grazie a un innovativo progetto di scrittura collettiva.
Tuttavia lo scorso 21 luglio, in Commissione giustizia alla Camera, Giulia Bongiorno, nella sua veste di Presidente, ha reputato inammissibili entrambi gli emendamenti, scatenando l'ira della rete che si è sentita beffata dalla carenza di motivazioni, oltre che dal paradosso, registrato da Guido Scorza, secondo cui l'emendamento Zaccaria è stato prima dichiarato inammissibile e poi, ciò nonostante, ugualmente messo ai voti e bocciato.
Leggerezze? Approssimazioni? Mala fede? Sia come sia, il web non si è arreso e ha lanciato subito una nuova campagna, che su Facebook ha raccolto immediatamente diverse migliaia di adesioni. Contestualmente Fabio Chiusi del blog "Il Nichilista" ha dato una risposta articolata all'onorevole Bongiorno, che (...) 

Giuseppe D'Elia

giovedì 22 luglio 2010

Trasfusioni: i dilemmi della rete


La vicenda narrata nel blog "senzalimiti", molto dibattuta in rete, si dovrebbe comprendere, senza grosse difficoltà, già solo leggendo queste poche righe: "non potevo credere alle mie orecchie. Fino a ieri il mio sangue andava benissimo, anzi mi chiamavano pure a casa se magari facevo passare troppo tempo tra una donazione e l'altra, è andato bene per oltre venti volte e oggi non va più bene? Vi ho dato nove litri in otto anni e adesso non posso? E perché poi? Solo perché sono gay?".
Ed è esattamente questo, ciò che è successo: un donatore abituale, ritenuto perfettamente in grado di donare, in base agli standard normativi vigenti, d'un tratto non può più farlo, perché la struttura sanitaria presso cui svolgeva l'operazione lo colloca in una "categoria a rischio". Al riguardo va ricordato innanzi tutto che la questione non è nuova. Già quattro anni fa, infatti, l'allora Ministro della Salute Livia Turco, sull'argomento, si espresse in questi termini: "nel 2001, anche sulla base delle indicazioni degli Organismi europei, nella nostra normativa è stato rimosso ogni riferimento a 'categorie a rischio' focalizzando, invece, l'attenzione sulla più ampia e variegata categoria dei 'comportamenti a rischio'. Né sono stati a tutt'oggi rilevati validi motivi per modificare detta impostazione". Ma ciò che più conta, qui, è che Gabriele, il protagonista di questa vicenda, così come ogni altro donatore, è sano o non lo è indipendentemente da quello che può risultare da un rapporto statistico. In altre parole, quando è nota la storia clinica di una persona, quando gli esami medici e di laboratorio previsti dalla legge – i cosiddetti "protocolli per l'accertamento della idoneità del donatore di sangue e di emocomponenti" – attestano lo stato di buona salute (...) 

Giuseppe D'Elia

giovedì 15 luglio 2010

Cassazione e maltrattamenti in famiglia: quando anche la Rete alimenta l'equivoco


Fino a che punto il desiderio di sanzionare certe condotte particolarmente riprovevoli può offuscare una serena capacità di giudizio, quando si tratta di questioni giuridiche? Un chiaro esempio di questo errore di valutazione ci è stato offerto, nei giorni scorsi, dall'unilateralità monolitica con cui si è descritta la vicenda del reato di maltrattamento in famiglia che, in base ad una recente pronuncia della Cassazione, non sussisterebbe più, se si dimostra che la persona maltrattata possiede un "carattere forte". In sostanza, informazione ufficiale e web all'unisono hanno creato la seguente massima giurisprudenziale: "quando la donna ha un carattere forte non costituiscono reato i maltrattamenti commessi a suo danno dal marito".
Peccato che – come opportunamente osserva l'avv. Carmela Puzzo in una "Nota a sentenza" pubblicata su "Diritto & Diritti" – "è evidente il travisamento da parte dei media del ragionamento e delle affermazioni effettuate dalla Suprema Corte, che con la decisione in esame non ha fatto altro che ribadire un orientamento pacifico della giurisprudenza".
Dunque, la Cassazione ha riaffermato che "per la sussistenza del reato di maltrattamenti in famiglia, che è reato a condotta plurima, non sono sufficienti singoli e sporadici episodi occasionali, in quanto i più atti che integrano l'elemento materiale del reato debbono essere collegati tra loro da un nesso di abitualità e devono essere avvinti, nel loro svolgimento, da un'unica intenzione criminosa, quella appunto di avvilire ed opprimere la personalità della vittima".
Rispetto a tali profili (abitualità ed intenzionalità della condotta): "il fatto non sussiste" per "evidenti carenze probatorie". E bastava leggere la sentenza, disponibile fin da subito in Rete, con la dovuta attenzione per (...) 

Giuseppe D'Elia

giovedì 8 luglio 2010

Salpa dalla Rete la nave dei diritti


Creare "ponti, non muri". Tre semplici parole che permettono di cogliere a pieno lo spirito del sito "lo sbarco" ed il senso di questo "diario di bordo di un'impresa possibile". Quale impresa? Quella della "nave dei diritti", iniziativa promossa da nostri connazionali "che vivono a Barcellona" e che si dicono "seriamente preoccupati" per "ciò che avviene in Italia". Il manifesto di questo "movimento di cittadini/e", in Rete già da diversi mesi, racconta di come, vista dall'estero, l'Italia appaia sempre più come un Paese in cui "il razzismo cresce, così come l'arroganza, la prepotenza, la repressione, il malaffare, il maschilismo, la diffusa cultura mafiosa, la mancanza di risposte per il mondo del lavoro, sempre più subalterno e sempre più precario".
In Spagna, in particolare, desta sconforto la lettura dei "molti articoli" in cui "si è parlato dei campi Rom bruciati, dei provvedimenti di chiusura agli immigrati, delle aggressioni, dell'aumento dei gruppi neofascisti, delle ronde, dell'esercito nelle strade, della chiusura degli spazi di libertà e di democrazia, delle leggi ad personam". Tuttavia, i promotori, "convinti che ci siano migliaia di esperienze di resistenza, di salvaguardia del territorio, di difesa dei diritti, della salute, di servizi pubblici di qualità", hanno deciso di dar vita ad un percorso di sostegno dei valori positivi dell'Italia che non fa notizia.
Da qui, l'idea di celebrare i 150 anni dallo sbarco dei Mille, salpando in nave da Barcellona per portare "un grido di aiuto e solidarietà" agli Italiani che resistono a questo "imbarbarimento pericoloso". Una nave per solcare il Mediterraneo e ricordare, tra l'altro, che (...) 

Giuseppe D'Elia

giovedì 1 luglio 2010

Berlusconismo gramsciano? La Gelmini punta all'egemonia culturale


Le recenti dichiarazioni del ministro dell'Istruzione Maria Stella Gelmini, sul berlusconismo come nuovo modello culturale nazionale, hanno suscitato non poche perplessità, in Rete. Soprattutto per il ruolo che le è proprio. L'intento di far “affermare una cultura di centrodestra anche nella scuola e nell’università”, infatti, quando viene proclamato proprio da chi sta effettivamente mettendo mano a queste preziosissime istituzioni, assume un peso che, poi, difficilmente potrà essere negato o sminuito.
Del resto, la neonata fondazione Liberamente, nelle parole del ministro che più hanno fatto scalpore, ha una missione ben precisa: “proporre il berlusconismo” come “una conquista del Paese che vogliamo difendere (...) anche in un ambito culturale in cui vige l’egemonia della sinistra, che pensa che il centrodestra sia privo di identità culturale”. Il berlusconismo, insomma, “non è qualcosa da mettere tra parentesi, come vorrebbe la sinistra che propaga la sua retorica del pessimismo”. Anzi: “proprio perché è un momento di crisi e di difficoltà non si può diffondere sfiducia ma è necessario puntare sull’ottimismo della volontà”.
Ora, per quanto non si possa certo parlare di un revival della fascistizzazione della scuola, non vanno nemmeno taciuti i segnali che destano preoccupazione. Su tutti, valga la presa di posizione dell'Anpi rispetto alla scelta ministeriale di proporre per la maturità di quest'anno un tema storico-politico che legittima il duce del fascismo, nel suo assumersi in Parlamento la responsabilità del delitto Matteotti, mettendo questo discorso sullo stesso piano di quelli di un papa e di due leader politici dell'Italia repubblicana.
Ma ancor più singolare è l'uso (consapevole?) del lessico gramsciano in chiave neo-conservatrice. Ciò che soltanto l'improvvida furia iconoclasta del PD ha reso possibile, laddove solo si consideri che "pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà" era il motto che Gramsci definiva “la parola d'ordine di ogni comunista”. 

Giuseppe D'Elia