(segue) Mobilitazione
globale permanente, dunque: unire le masse popolari radicalmente
critiche verso il modello economico-sociale imperante, con l’obiettivo
di realizzare forme più compiute di democrazia, attraverso la pacifica
occupazione delle principali piazze dei diversi Paesi.
Tutto limpido e alla luce del sole.
Messo nero su bianco, anzi:
«Uniti per un cambiamento globale: più di 1.000 città – 82 paesi. Il 15 Ottobre gente di tutto il mondo prenderà le strade e le piazze.
Dall’America all’Asia, dall’Africa all’Europa, la gente si sta sollevando per rivendicare i propri diritti e chiedere una democrazia autentica. Ora, è arrivato il momento di unirci tutti in una protesta globale non violenta. I poteri dominanti lavorano a beneficio di pochi, ignorando la volontà di una vasta maggioranza e senza tenere conto del costo umano ed ecologico che dobbiamo pagare. Questa situazione intollerabile deve finire. Uniti in una sola voce, faremo sapere ai politici e alle élite finanziarie a cui sono asserviti, che ora siamo noi, i popoli, che decideremo il nostro futuro. Non siamo merce nelle mani di politici e banchieri che non ci rappresentano. Il 15 Ottobre ci troveremo in piazza per mettere in moto il cambiamento globale che vogliamo. Manifesteremo pacificamente, dibatteremo e ci organizzeremo fino a riuscirci. È ora che ci uniamo. È ora che ci ascoltino. People of the world, rise up (…)!» (5).
Va sottolineato che il contenuto dell’appello internazionale, testé
trascritto, in Italia, raccoglieva un diffuso consenso, testimoniato,
chiaramente, ad esempio, dal contenuto di questo pubblico manifesto di
adesione:
«Uniti per l’alternativa ha scelto fin dall’inizio di raccogliere la sfida degli indignados globali, perché è proprio la ricerca, paziente e faticosa, dell’unità, della ricomposizione delle lotte, la cifra distintiva del suo percorso. Connettere le differenze, questo è il primo obiettivo da praticare per invertire la rotta della crisi!
(…) Chiaramente, l’unità da sola non è sufficiente. Non basta combinare le resistenze operaie con le lotte studentesche o in difesa dei beni comuni, c’è bisogno di un progetto comune di trasformazione. L’alternativa è questo orizzonte, questo desiderio di cambiamento che si fa programma politico concreto: la capacità di egemonia dei movimenti — ampiamente dimostrata dai risultati referendari di giugno — non può non prendere la forma di un processo costituente di un nuovo modello sociale, economico e politico.
(…) In questo senso è decisivo che le manifestazioni siano partecipate da centinaia di migliaia di persone. I numeri da soli non bastano, di questo ne siamo certi, ma di fronte alla violenza della finanza e delle banche, i numeri sono la prima condizione per cominciare ad affermare un rapporto di forza favorevole. Ci vuole poi una mobilitazione permanente, che sappia fare tesoro delle straordinarie esperienze americane di questi giorni, oltre che della primavera araba e delle mobilitazioni spagnole. (…)» (6).
Cosa doveva succedere, allora, nel nostro Paese, il 15 ottobre? Far
confluire nella capitale centinaia di migliaia di persone, occupare con
questa massa una delle piazze storiche delle proteste popolari (piazza
San Giovanni), piantare le tende in loco e difendere con tecniche di
lotta nonviolenta questo neonato presidio permanente di democrazia, in
cui sarebbero stati meglio definiti gli obiettivi politici immediati
della protesta popolare e i metodi pacifici e democratici per
raggiungerli e mantenerli.
Cosa ha impedito che tutto questo potesse accadere? Un’esplosione
improvvisa di violenza nichilista. Una furia devastatrice che ha
dapprima spezzato il corteo e poi lo ha costretto a disperdersi e ad
abbandonare il progetto iniziale, visto che nella piazza e nelle strade
attigue si era, ormai. scatenata una battaglia con le forze dell’ordine
che, di fatto, vanificava ogni possibilità di raggiungere gli
obiettivi programmati.
Soffermarsi sul “cosa” ha impedito la riuscita della manifestazione
più che soffermarsi a lungo a dibattere sul “chi” ha determinato tutto
questo è mero buon senso, dato che l’unico elemento certo e
indiscutibile, al momento, è il rapporto numerico tra fautori della
devastazione e manifestanti che invece avrebbero preferito far ricorso a
forme di lotta nonviolente.
Su questo punto, Marco Rovelli ci offre una ricostruzione che
costituisce un ottimo punto di partenza per una più attenta analisi
della vicenda:
«Eravamo tanti. La narrazione comincia da qui. Di questo dobbiamo far memoria. Eravamo tanti, un fiume in piena. E dobbiamo andare oltre, e prendere lezione, e costruire pratiche di movimento che adesso non ci sono.
Non è questione di violenza e non violenza, non è questa la questione. (Che poi, nulla è più violento del “sistema”, oggi, che ci sta portando via presente e futuro, nostro e del pianeta: ogni altra violenza, oggi, è in scala inferiore rispetto a questa). La violenza accade, può accadere, la Storia ce lo insegna che a volte deve accadere. A certe condizioni: se è razionale rispetto allo scopo, dunque sensata e può produrre effetti reali in un contesto di strategia; se non vi sono altri mezzi possibili (e questo, per dire, esclude le autolegittimazioni di quella parte di movimento che rivendica gli scontri paragonando le pratiche della piazza romana a quelle di piazza Tahrir). Non siamo in presenza di queste condizioni. Ben miope è la mistica degli scontri di piazza. Che non si inseriscono in alcuna strategia politica, che non producono alcun effetto positivo, che contribuiscono a distruggere un movimento e non a costruirlo. In che cosa oggi siamo più vicini alla demolizione del sistema? In nulla.
E ancora — rispetto alla “narrazione” ufficiale dei media — non si parli di black bloc, con la retorica buoni indignati/cattivi venuti da fuori. (…). Non si parli, perciò, neppure di infiltrati, ciò che costituisce per molti del movimento un bell’alibi.
La questione principale è un’altra. È la questione delle pratiche. Che devono essere condivise. Non si parassita un corteo che ha altri obiettivi e convocato con altre pratiche, non gli si impone la propria minoritaria presenza. Questa è la violenza peggiore. Imporre agli altri le proprie pratiche. Prendendo la testa in 300 di una manifestazione di 300mila persone e segnando il destino di quella manifestazione. È una questione di democrazia. (…)» (7).
Le riflessioni di Rovelli sono importanti — anche se non
condivisibili al cento per cento — perché evidenziano in maniera molto
chiara e sintetica le tante (e intricate) questioni che l’esplosione di
violenza incontrollata del 15 ottobre italiano lasciano aperte.
Mettendo un attimo da parte la questione delle forme di lotta
politica (lotte nonviolente vs. uso della forza), indubbiamente, a
quella minoranza che ha imposto la logica dello scontro di piazza a
quella della piazza occupata pacificamente e trasformata in presidio di
rinnovamento democratico, vanno fatte notare alcune cose.
Innanzi tutto, appunto, il loro imporsi come un’oligarchia di segno
opposto a quella che questo nascente movimento di massa sta cercando di
combattere democraticamente; con il che il movimento — almeno in Italia
— finisce col rimanere schiacciato tra due oligarchie: quella
capitalista e quella nichilista.
Senz’altro quella rabbia diffusa che sta alla base di comunicati come
quello che apertamente inneggiava all’insurrezione (8) è ben
sintetizzata in considerazioni di questo tipo:
«se c’era un paese che doveva trasformare l’indignazione in incazzatura di massa, quello era proprio l’Italia, che vive un presente veramente penoso». (9)
Ma se questa rabbia si spiega con la particolarità della situazione
politica italiana, che non sembra assolutamente in grado di offrire
speranze di concreto miglioramento né ai lavoratori precari, né a chi è
senza lavoro, in ogni caso, tutto ciò non giustifica una violenza che
resta fine a se stessa.
Se pertanto il nucleo centrale della critica di chi sceglie lo
scontro e la devastazione si può riassumere in una questione di
inefficacia delle forme di lotte nonviolente: se, insomma, il problema è
che i cortei e le manifestazioni a nulla servirebbero, perché la
situazione di chi protesta, poi, non migliora mai, quando la protesta
volge al termine, l’autolesionismo della scelta di segno opposto
diventa innegabile.
Diversamente da come scrive Rovelli, infatti, non solo la
devastazione di piazza non serve a demolire il sistema, ma addirittura
fa ulteriormente regredire le condizioni di vita delle classi più
disagiate, dato che al disagio economico, si aggiunge la risposta
repressiva dell’ordine costituito che travalica le responsabilità dei
singoli, finendo col criminalizzare (e non solo da un punto di vista
mediatico) la protesta in quanto tale.
In altre parole, al danno di una condizione di vita particolarmente
disagiata si viene così ad aggiungere la beffa della sempre più
difficile possibilità di costruire una proposta di alternativa politica
che sia realmente in grado di invertire la tendenza degli ultimi
decenni: quella di privilegiare, sempre e comunque, gli interessi dei
potentati economici (che accumulano, per generazioni, i capitali) a
danno di quelli delle masse dei lavoratori (che restano escluse dal
processo di accumulazione capitalistica).
In questo senso, quindi, se si riconosce — come anche Rovelli fa — il
potenziale distruttivo, verso le ragioni della protesta e della
stragrande maggioranza di coloro che la sostengono, delle pratiche di
devastazione, diventa prioritario scegliere democraticamente un metodo
politico di lotta e praticarlo coerentemente fino in fondo.
«Bourgeois society stands at the crossroads,
either transition to socialism
or regression into barbarism».
or regression into barbarism».
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(6) http://www.globalproject.info/it/in_movimento/15-ottobre-ce-nest-que-un-debut/9687
(7) http://www.nazioneindiana.com/2011/10/16/roma-15-ottobre-la-violenza-o-le-pratiche/
(8) http://italy.indymedia.org/node/864
(9) http://www.infoaut.org/index.php/blog/editoriali/item/2890-doveva-finire-con-qualche-comizio
(6) http://www.globalproject.info/it/in_movimento/15-ottobre-ce-nest-que-un-debut/9687
(7) http://www.nazioneindiana.com/2011/10/16/roma-15-ottobre-la-violenza-o-le-pratiche/
(8) http://italy.indymedia.org/node/864
(9) http://www.infoaut.org/index.php/blog/editoriali/item/2890-doveva-finire-con-qualche-comizio