lunedì 24 ottobre 2011

Uniti per un cambiamento globale: socialismo o barbarie?/1


C’è un interrogativo che si impone oggi all’attenzione di chi vuole realmente capire quello che sta succedendo in mezzo mondo, man mano che la crisi economico-finanziaria degli ultimi anni continua a dispiegare i propri effetti regressivi sulle vite di sempre più ampie fasce di popolazione: può esistere un modello economico-sociale, storicamente, non superabile da un’alternativa migliore?

Se l’economia capitalista genera forme sociali che garantiscono il benessere di una esigua minoranza di individui, mentre alle masse — a seconda della regione geografica in cui la sorte fa venire al mondo ciascun singolo — tocca la casuale alternativa tra una condizione esistenziale di persistente difficoltà e una prospettiva di vita in cui già la mera sopravvivenza è un lusso, insomma: com’è possibile che la messa in discussione del sistema economico rimanga sempre ai margini del dibattito politico mediatico?

Se si riflette sul significato degli slogan transnazionali e delle rivendicazioni politiche che stanno alla base delle ondate montanti di protesta, il dato comune che emerge è duplice: una generica matrice anti-capitalista e un diffuso bisogno di democrazia partecipata. In quel “We are the 99%”, dunque, c’è soprattutto una critica radicale a quella «forma di regime politico in cui il potere è nelle mani di pochi, eminenti per forza economica e sociale» (1), che corrisponde esattamente alla definizione di ciò che è un’oligarchia (capitalista).

D’altra parte, un’accusa agli oligarchi, alfieri del capitalismo finanziario, è testuale e nettissima in un recente intervento del premio Nobel per l’economia Paul Krugman:
    «i Masters of the Universe di Wall Street capiscono, nel profondo del loro cuore, quanto sia moralmente indifendibile la loro posizione. (…). Sono gente che è diventata ricca trafficando con complessi schemi finanziari che, lungi dal portare evidenti benefici economici agli americani, hanno contribuito a gettarci in una crisi i cui contraccolpi continuano a devastare la vita di decine di milioni di loro concittadini.
    Non hanno ancora pagato nulla. Le loro istituzioni sono state salvate dalla bancarotta dai contribuenti, con poche conseguenze per loro. Continuano a beneficiare di garanzie federali esplicite ed implicite — fondamentalmente, siamo ancora in una partita in cui loro fanno testa e vincono, mentre i contribuenti fanno croce e perdono. E beneficiano anche di scappatoie fiscali grazie alle quali, spesso, gente che ha redditi multimilionari paga meno tasse delle famiglie della classe media.
    Questo trattamento speciale non sopporta un’analisi approfondita e, perciò, secondo loro, non ci deve essere nessuna analisi approfondita. Chiunque metta in evidenza ciò che è ovvio, per quanto possa farlo in modo calmo e moderato, deve essere demonizzato e cacciato via. Infatti, più una critica è ragionevole e moderata, più chi la porta dovrà essere immediatamente demonizzato (…).
    Chi sono, dunque, gli antiamericani? Non i manifestanti, che cercano semplicemente di far sentire la propria voce. No, i veri estremisti, qui, sono gli oligarchi americani, che vogliono soffocare qualsiasi critica sulle fonti della loro ricchezza» (2).
Va specificato che l’analisi di Krugman — tanto lucida, quanto esplicita — si riferisce espressamente alle manifestazioni di protesta statunitensi: quelle ormai universalmente note come “Occupy Wall Street” (3), promosse da quel simbolico (e democratico) «99% che non tollererà più l’avidità e la corruzione del 1%»; un movimento che ha scelto di usare «la tattica rivoluzionaria della primavera araba» e di «incoraggiare l’uso della nonviolenza per massimizzare la sicurezza di tutti i partecipanti».

Qualcuno ha accostato questo neonato movimento a quello partito da Seattle, nello scorcio conclusivo del millennio scorso.

Molto interessanti, in proposito, le considerazioni di Naomi Klein, una delle più note figure di riferimento del movimento contro la globalizzazione capitalistica degli anni Novanta:
    «la più grande differenza che fa un decennio è che nel 1999 stavamo ereditando un capitalismo al culmine di un boom economico frenetico. La disoccupazione era bassa, i portafogli azionari erano gonfi. E i media erano ubriachi di denaro facile. Allora era tutto in fase di apertura, non di chiusura.
    Abbiamo evidenziato che la deregolamentazione che c’era dietro quella frenesia ha espresso il suo prezzo. Il danneggiamento degli standard del lavoro. Il danneggiamento degli standard ambientali. Le aziende stavano diventando più potenti dei governi e questo stava danneggiando le nostre democrazie. Ma a essere onesti, mentre i bei tempi scorrevano si imponeva di alimentare un sistema economico basato sull’avidità, almeno nei paesi ricchi.
    Dieci anni dopo sembra che non ci siano più paesi ricchi. Solo un sacco di gente ricca. Persone che si sono arricchite saccheggiando la ricchezza pubblica ed esaurendo le risorse naturali in tutto il mondo.
    Il punto è che ognuno oggi può vedere che il sistema è profondamente ingiusto e che sta sbandando fuori controllo. L’avidità senza freni ha demolito l’economia globale. E sta demolendo anche la natura. (…). La nuova normalità sono i disastri seriali: economici ed ecologici.
    Questi sono i fatti sul terreno. Sono così palesi, così evidenti, che è molto più facile entrare in contatto con il pubblico di quanto non lo fosse nel 1999, e per costruire il movimento velocemente.
    Sappiamo tutti che il mondo è capovolto: ci comportiamo come se non ci fosse una fine a ciò che è realmente finito — i combustibili fossili e lo spazio atmosferico per assorbire le loro emissioni. E ci comportiamo come se ci fossero limiti rigorosi e inamovibili a quanto è in realtà abbondante — le risorse finanziarie per costruire il tipo di società della quale abbiamo bisogno.
    Il compito del nostro tempo è quello di cambiare questa situazione: per sfidare questa falsa scarsità. Insistere sul fatto che possiamo permetterci di costruire una società decente e inclusiva — e al tempo stesso, rispettare i limiti reali di ciò che la terra può sopportare.
    I cambiamenti climatici ci dicono che dobbiamo fare questo con una scadenza. Questa volta il nostro movimento non può distrarsi, dividersi, o essere bruciato o spazzata via dagli eventi. Questa volta dobbiamo avere successo. E non sto parlando di regolamentare l’operato delle banche e aumentare le tasse ai ricchi, anche se questo è importante.
    Sto parlando di cambiare i valori di base che governano la nostra società. Quest’obiettivo è difficile da inserire in una singola rivendicazione mediaticamente efficace, ed è altrettanto difficile immaginare come portarlo avanti. Ma il fatto di essere difficile non la rende meno urgente (…)» (4).

Con queste premesse, dovrebbe essere ormai chiaro ed evidente che la giornata di mobilitazione planetaria convocata per il 15 ottobre scorso, all’insegna dello slogan “United for global change” (5) aveva un significato che i media mainstream nazionali hanno completamente occultato, riducendo la copertura informativa pressoché esclusivamente alla cronaca e all’analisi degli scontri di piazza.

Scontri sui quali è doveroso soffermarsi, ma non certo a discapito delle ragioni della protesta.

(continua)

Giuseppe D'Elia


«Bourgeois society stands at the crossroads,
either transition to socialism 
or regression into barbarism». 
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