martedì 27 marzo 2012

GOVERNO TECNICO E MESSA TRA PARENTESI DI BERLUSCONI: COSTITUENTE ARISTOCRATICA VS. DEMOCRAZIA POPOLARE /2

(segue) Un’analisi attenta dell’operato del governo Monti deve condursi necessariamente su due piani: quello della comunicazione politica e quello dell’azione concreta.

Sul piano comunicativo, questo esecutivo “tecnico” si è fin da subito presentato come il classico medico che non deve far altro che somministrare l’unica terapia possibile, per provare a salvare il paziente Italia da morte certa. Abbiamo già visto come questo modo di presentarsi abbia trovato e ancora trovi ampio risalto e cassa di risonanza nei media mainstream, con la lodevole eccezione delle poche voci che coraggiosamente si sottraggono al coro incensante.

Avendo già sufficientemente chiarito quanta esagerazione ed esasperazione ci sia stata nel descrivere la ‘malattia’ del Paese e la necessità e l’univocità della terapia da somministrare, vedremo ora, in concreto come l’azione politica dell’esecutivo Monti risulti in sostanziale continuità con i programmi e gli interessi del precedente esecutivo e quanto, di conseguenza, sia folle e potenzialmente suicida la scelta del Partito Democratico di assecondare questo progetto di restaurazione aristocratica.

Prima di entrare nel merito, però, è necessaria una premessa esplicativa di metodo: abbiamo già più volte fatto riferimento a questa idea di restaurazione aristocratica che, con la messa tra parentesi di Berlusconi, viene a contrapporsi alla democrazia popolare. In realtà, si potrebbe anche far ricorso al lessico marxiano e descrivere il corso degli eventi come un caratteristico sviluppo del conflitto tra capitale e lavoro e, più esattamente, tra la classe che ha accumulato capitali per generazioni e quella dei lavoratori salariati. Solo che la sfrontatezza con cui, oggi, le ricche oligarchie difendono i propri privilegi, contando sulla capacità di controllo e manipolazione dell’opinione pubblica, assicurata dal coro mediatico, rende prioritario porre l’accento sulla natura stessa di un ordinamento democratico che, di fatto, tende a cancellare un’autentica possibilità di scelta.

Per essere ancora più espliciti, la domanda che si impone al momento è questa: può ancora dirsi democratico un ordinamento che non consente opzioni di scelta realmente differenti?

Perché il nocciolo della questione è tutto qui: può dirsi democratico, un governo sedicente tecnico che propone ricette politiche che, quand’anche vengano discusse, in ogni caso, poi, saranno attuate secondo i piani predefiniti, anche se questi piani peggioreranno le condizioni di vita della maggioranza dei cittadini costretti a subirle?

Per comprendere a pieno il senso e l’urgenza di questa domanda è il caso allora di passare finalmente in rassegna ciò che ha fatto, fin qui, il governo Monti, cosa si propone di fare, come spaccia per inevitabili e assolutamente buone le proprie ricette ― con la complicità di una informazione che, per lo più, sembra aver smarrito per strada ogni capacità critica e di giudizio ― e quali sono invece le nefaste conseguenze logiche di queste scelte politiche, che vengono volutamente taciute o messe ai margini di ogni discorso sull’argomento.

Cominciamo dalla manovra economica all’insegna del tanto anelato “pareggio di bilancio”. Estrapolando i dati più significativi dall’ottima sintesi realizzata da Quattrogatti.info (18) si scopre subito che i tre quarti della manovra consistono in nuove tasse (19). All’insegna dell’equità (20) come annunciato? Vediamo. I carichi del prelievo aggiuntivo sono stati così distribuiti (21): Tassazione beni di lusso = 2% vs. Accise & Tabacchi = 22%; Tassazione strumenti finanziari e beni esteri = 5% vs. IMU e rivalutazione catastale (in sostanza: la nuova ICI anche sulle prime case) = 44%. Sul versante residuale delle minori spese (22): i due terzi dell’intervento gravano sui pensionati.

Numeri, non ipotesi (23). Dati che, giova chiarirlo, mostrano come la volontà dichiarata di mettere in linea entrate e spese previste si sia realizzata, in sostanza, con un taglio alla spesa pubblica di 9 miliardi di euro che è quasi interamente ― per il 66% del totale (il resto sono quasi tutti tagli ai trasferimenti agli enti locali) ― messo a carico di pensionati e pensionandi.

Ma è soprattutto con le nuove tasse, ripetiamo, che si è realizzato l’equilibrio d bilancio. E, indubbiamente, l’equità non può certo essere data da questi numeri: su circa 26 miliardi di nuove entrate, anche qui, i due terzi finiscono con gravare diffusamente sulla cittadinanza. Scegliere infatti di prendere il 44% di queste nuove entrate dalla tassazione delle abitazioni di proprietà e un altro bel 22% da accise (si pensi soprattutto ai carburanti) e tabacchi e non di andare a incidere pesantemente sulla rendita finanziaria e immobiliare a quale ragione tecnica (e non squisitamente politica) dovrebbe rispondere?

Tenendo bene a mente che in Italia la Costituzione riconosce espressamente, all’art 53, il principio della progressività delle imposte (24), ha senso realizzare il pareggio di bilancio a danno dei cittadini consumatori, dei pensionati e dei proprietari di unità immobiliari in cui risiedono (ossia la casa familiare, spesso acquisita faticosamente con mutui ultra-decennali)?

Dalla sola rendita ― quella immobiliare, recentemente stimata in 1700 miliardi di euro, e quella finanziaria addirittura in 2700 miliardi (25) ― si sarebbe potuto ottenere agevolmente la quota messa a carico dei piccoli proprietari e si sarebbe potuto benissimo anche evitare l’ennesimo taglio alla spesa pensionistica.

Se, dunque, si analizza il modo in cui si è scelto di distribuire i famigerati sacrifici da fare per risanare i conti pubblici, emerge chiaramente quel contrasto che in USA i movimenti hanno sintetizzato nella formula del “We are the 99%” (26) di cittadinanza costretta a vedere peggiorare le proprie condizioni di vita, in situazioni di crisi economica, per mantenere intatti i privilegi dell’1% più ricco. Va detto, poi, che questo slogan, per il caso italiano, può essere facilmente tradotto in una misura precisa e attendibile, essendo di pubblico dominio (anche se mai sufficientemente pubblicizzato) il dato registrato dalla Banca d’Italia (27) di quel 10% di famiglie italiane che possiede circa il 45% della ricchezza complessiva del Paese. Ed è curioso che quasi nessuno osservi come la scelta di questo governo di non chiedere il surplus di sacrifici ai rentiers, si configuri come un chiaro esempio di conflitto di interessi, visto che il primo tenutario di rendite finanziarie e immobiliari è lo stesso Presidente del Consiglio in carica (28) e considerato che anche i suoi ministri non se la passano affatto male, da questo punto di vista (29).

Ricapitolando: il governo del 10% degli Italiani più ricchi definisce “salva Italia” (30) una manovra economica che prevede il pareggio di bilancio nel 2014, ma mettendo il grosso del conto da pagare a carico dei ceti medio-bassi e promettendo contestualmente una pronta azione per lo sviluppo economico.

Pur essendo guidato da un economista di chiara fama, però, commette l’errore tecnico di ridurre la capacità di spesa di milioni di cittadini italiani, con questo intervento fiscale. La recessione economica ― ormai riconosciuta e certificata (31) ― dunque era tutt’altro che imprevedibile, nel suo consolidarsi. E sia chiaro: se la manovra fosse stata caricata interamente sulle rendite e sui grandi patrimoni, l’effetto depressivo sulla domanda interna (che decresce in corrispondenza del minor potere di spesa delle famiglie tassate a vario titolo) non si sarebbe prodotto e, oggi, sarebbe meno arduo invertire la tendenza recessiva.

Nondimeno il governo ha una sua ricetta anche per bloccare la recessione economica (32):
«Il decreto legge rinominato dal presidente del Consiglio Monti “Cresci Italia” consentirà nel breve periodo, di traghettare l’economia nazionale fuori dalla spirale recessiva e possibilmente, nel medio/lungo periodo, di allinearla ai ritmi di crescita dei partners europei e internazionali».
Si tratta del famoso provvedimento sulle liberalizzazioni, immediatamente sommerso da una pioggia di migliaia di emendamenti (33), dato che le categorie interessate ― a cominciare da quegli avvocati che in parlamento hanno un’ampia rappresentanza corporativa ― hanno scelto di dar fondo «alle loro risorse di lobbying, scatenando i propri rappresentanti in Commissione».

Come è andata a finire? Lo stesso Monti (34) si è espresso in questi termini, in proposito:
«La disciplina di queste materie per molti aspetti è stata migliorata nel corso dell’esame al Senato, a seguito di costruttivi interventi dei gruppi parlamentari e anche di singoli parlamentari».
Il provvedimento, però, è ancora in fase di approvazione definitiva e, quindi, ogni previsione sui suoi esiti possibili sarebbe doppiamente azzardata, potendo benissimo sparire o cambiare il singolo caso preso in esame.

Di certo, a noi non sembra che le contrastatissime azioni in materia di farmacie, taxi, carburanti, avvocati e notai possano realizzare chissà quale rivoluzione o anche solo significativo progresso per la cittadinanza, ma attendiamo fiduciosi che le norme vadano stabilmente in porto, con la conversione in legge del decreto, e che dispieghino pienamente i propri effetti di medio periodo, per dare una valutazione più compiuta.

Vanno fin d’ora registrate, però, le perplessità della Ragioneria dello Stato sulla copertura economica di alcune delle modifiche apportate al decreto dal Senato (35) e la questione spinosa delle commissioni bancarie omnicomprensive.

La scorsa settimana, il sottosegretario allo Sviluppo economico, Claudio De Vincenti, sul punto si esprimeva così (36):
«La posizione del Governo è nota: quella sulle commissioni bancarie è una norma votata dal Parlamento. Naturalmente il parere del Governo era contrario. Se il Parlamento riterrà di modificare la norma noi saremo assolutamente favorevoli a modificarla. Tutto qui. Non ci sono novità».
Cos’è successo esattamente, dunque?

Uno dei tanti emendamenti al decreto liberalizzazioni votati in Senato ha sancito (37) una invalidazione generale di
«tutte le clausole, comunque denominate, che prevedano commissioni a favore delle banche a fronte della concessione di linee di credito, della loro messa a disposizione, del loro mantenimento in essere, del loro utilizzo anche nel caso di sconfinamenti in assenza di affidamento ovvero oltre il limite del fido».
La norma ― lo ribadiamo: votata con parere contrario del Governo ― avrebbe permesso insomma di annullare tutti quegli escamotage con i quali le banche, di fatto, hanno aggirato la precedente abrogazione delle cosiddette commissioni di massimo scoperto.

Tuttavia, la reazione scomposta (dimissioni, poi, congelate) e la pressione continua dei vertici dell’ABI hanno portato il governo a scegliere di mettere in campo un apposito decreto, teso a neutralizzare questa norma (38): come dire? Tutti dobbiamo fare i necessari sacrifici per il bene dell’Italia, ma le banche devono comunque continuare a fare ingenti profitti…

Mettendo da parte il sarcasmo, però, già a questo punto, al lettore, dovrebbe risultare ormai sufficientemente chiaro come e quanto l’azione di questo esecutivo sia tutt’altro che neutrale, una volta visti gli interessi che va a toccare senza esitazioni e quelli intoccabili (o quasi).

La sostanziale convergenza con le politiche programmatiche del governo uscente è lampante e, d’altro canto, che Mario Monti potesse essere definito come un uomo di destra, pur non essendo affatto devoto a Silvio Berlusconi, lo si poteva ben comprendere leggendo questo suo articolo dell’anno scorso (39), in cui accostava Berlusconi a Marx (sic!), liquidandoli come due illusionisti, e contestualmente esaltava la concretezza dell’azione politica di Sergio Marchionne e di Maria Stella Gelmini… E, sia chiaro, Monti era uno che in Berlusconi inizialmente ci aveva creduto, come lui stesso ricordava, nell’articolo appena citato: nel 1994, salutando con speranza l’avvento al governo dell’imprenditore ‘prestato’ alla politica, Monti gli dava fiducia; come potenziale campione del liberismo (40), ma gli dava fiducia.

Resta sul tavolo un interrogativo decisivo per la comprensione della complessa partita politica che si sta giocando al momento nel Paese: com’è possibile che la mera messa tra parentesi di Berlusconi risulti sufficiente, a pezzi significativi dell’opposizione partitica e sociale, per sposare ciecamente la causa montiana? Come è possibile che quella stessa stampa ‘autorevole’ che ha denunciato per anni le tante nefandezze berlusconiane, dimentichi tutto da un giorno all’altro, quasi come se Berlusconi fosse svanito nel nulla, e sostenga il governo Monti, appunto, come se la tenuta di questo governo non dipendesse dalla folta pattuglia parlamentare berlusconiana?

La risposta a questa domanda, per quanto possa suonare sgradevole, sta appunto nella convergenza di interessi economici e di potere che è alla base della fallita svolta bipartitica tentata nel 2008. L’idea era quella di ridurre la dialettica politica allo scontro tra due sole opzioni partitiche, con politiche programmatiche sostanzialmente omogenee, dato che la contesa politica si sarebbe dovuta svolgere tutta e sola, spostando un po’ più destra o un po’ più a sinistra quell’ipotetica fascia di elettorato moderato e pragmatico che, di volta in volta, avrebbe scelto di votare il candidato in grado di realizzare al meglio quel programma che, in fondo, più o meno, è sempre lo stesso: più mercato e meno Stato.

Al netto delle forzature richieste dallo sforzo di sintesi, il nocciolo della questione è appunto questo: la supremazia incontestabile del mercato, con annessa riduzione di tutto ciò che è intervento pubblico e stato sociale. D’altra parte ― una volta esclusa la possibilità di incrementare le entrate, tassando le rendite e i grandi patrimoni ― il dogma dell’azzeramento del debito pubblico mediante riduzione della spesa pubblica, a cosa porta, se non allo smantellamento del Welfare? E da questo smantellamento chi altri ne trarrebbe profitto, se non chi ha capitali da investire in quei nuovi profittevoli settori di mercato che si vengono così a creare? Una volta smantellata la scuola e l’università pubblica, chi ne trarrebbe immediato giovamento se non coloro che già hanno investito e ulteriormente potrebbero investire nel settore, facendosi pagare profumatamente il servizio offerto? Idem dicasi per la sanità, per la spesa previdenziale e assistenziale, per le energie, i trasporti, i servizi pubblici essenziali e finanche per l’acqua, mercato preziosissimo, essendo legato a un bene letteralmente vitale.

L’obiettivo politico, dunque, è di assoluta evidenza: declinare la democrazia dell’alternanza, offrendo una scelta che appaia tale soltanto da un punto di vista formale, svolgendosi, poi, in realtà, tra due sole ‘opzioni’, ma fittizie, in quanto identiche nella sostanza. E se, nonostante tutti gli artifici manipolativi introdotti (compresa quella famigerata legge elettorale ora riconosciuta come indecente dalle stesse persone che l’hanno creata e che ne hanno direttamente beneficiato), questo progetto del bipartitismo coatto della falsa alternanza fallisce ― perché le forze partitiche non si riducono a due (41) e la società civile si organizza fuori dai partiti, riuscendo persino a far rivivere l’istituto referendario (42) ― allora si può anche mettere da parte la logica dell’alternanza e puntare tutto sull’unità politica necessitata delle forze auto-proclamatesi “più responsabili”.

Responsabili verso cosa e per soddisfare quali necessità, fermo restando quanto già chiarito fin qui, lo si capirà ancora meglio, esaminando la cosiddetta terza fase dell’attività dell’esecutivo.


Giuseppe D'Elia

 per L'Indiependente.it 


«È vero che, formalmente, 
il parlamentarismo deve servire ad esprimere 
nell'organizzazione statale 
gli interessi di tutta la società. 
Ma d'altro lato 
esso è un'espressione soltanto della società capitalistica, 
cioè di una società 
nella quale sono preponderanti 
gli interessi capitalistici. 
Le istituzioni formalmente democratiche 
diventano con ciò sostanzialmente 
strumenti degli interessi della classe dominante. 
E questo si palesa in modo evidente 
nel fatto che, 
non appena la democrazia 
tende a smentire il suo carattere classista 
ed a trasformarsi 
in uno strumento dei reali interessi del popolo, 
le stesse forme democratiche 
vengono sacrificate 
dalla borghesia 
e dalla sua rappresentanza statale».
________________________________________________________

(18) http://www.scribd.com/doc/76329142/La-manovra-del-governo-Monti-Quattrogatti-info

(19) http://s3.amazonaws.com/data.tumblr.com/tumblr_lwvd7gYcpo1qc3cneo2_1280.png

(20) http://www.dirittodicritica.com/2011/11/18/monti-senato-rigore-equita-famiglie-risparmio-fiducia-49973/

(21) http://s3.amazonaws.com/data.tumblr.com/tumblr_lwvd7gYcpo1qc3cneo4_1280.png

(22) http://s3.amazonaws.com/data.tumblr.com/tumblr_lwvd7gYcpo1qc3cneo5_1280.png

(23) http://seideegiapulp.tumblr.com/post/14864430952/la-composizione-della-manovra-monti-in-7#

(24) http://www.quirinale.it/qrnw/statico/costituzione/costituzione.htm

(25) http://www.linkiesta.it/patrimoniale-immobili-tassa-ricchezza

(26) http://seideegiapulp.blogspot.it/2011/10/uniti-per-un-cambiamento-globale.html

(27) http://bit.ly/GEXbN0

(28) http://www.governo.it/Presidente/patrimoniale/Dichiarazione_Monti.pdf

(29) http://www.iltempo.it/politica/2012/02/22/1324131-redditi_monti_banca_milioni.shtml?refresh_ce

(30) http://www.youtube.com/watch?v=7mjHyXcUaoQ&t=4m03s

(31) http://www.julienews.it/notizia/economia-e-finanza/istat-italia-in-recessione-tecnica/105446_economia-e-finanza_4_1.html

(32) http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/cresci_italia/

(33) http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/442115/

(34) http://www.governo.it/GovernoInforma/Dossier/cresci_italia/intervento_monti_camera20120315.html

(35) http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=186714

(36) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-03-14/commissioni-azzerate-intravedono-possibili-152926.shtml?uuid=AbB1Iv7E

(37) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-02-29/banche-stretta-linee-credito-063622.shtml?uuid=AadjLUzE

(38) http://www.milanofinanza.it/news/dettaglio_news.asp?id=201203212137593380&chkAgenzie=TMFI&sez=news&testo=&titolo=Banche,%20arriva%20la%20norma%20salva-commissioni

(39) http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_02/monti-meno-illusioni-per-dare-speranza-editoriale_07bad636-1648-11e0-9c76-00144f02aabc.shtml

(40) http://archiviostorico.corriere.it/1994/maggio/08/liberismo_con_rigore_co_0_9405085267.shtml

(41) http://www.sondaggipoliticoelettorali.it/asp/visualizza_sondaggio.asp?idsondaggio=5293

(42) http://friendfeed.com/referendum-giugno-2011/ccc1f705/altro-che-effetto-fukushima-referendum-4-si

lunedì 26 marzo 2012

GOVERNO TECNICO E MESSA TRA PARENTESI DI BERLUSCONI: COSTITUENTE ARISTOCRATICA VS. DEMOCRAZIA POPOLARE /1


Una volta trascorsi i fatidici cento (e passa) giorni di governo tecnico, tracciare un primo bilancio dell’operato dell’esecutivo Monti, da un punto di vista rigorosamente indipendente, ci pare doveroso.

Va detto subito che la tendenza all’agiografia di Mario Monti, quotidianamente veicolata a media pressoché unificati, ormai, risulta davvero imbarazzante.

Un recente editoriale domenicale di un gran maestro del giornalismo italiano, quale Eugenio Scalfari (1), è efficacissimo nel dare una immediata testimonianza della narrazione dell’epopea montiana e dei suoi tratti smaccatamente propagandistici:
«Tre mesi fa eravamo sul ciglio di un baratro, la credibilità del nostro Paese era scesa sotto il livello dello zero, dalla finanza e dalla tenuta del debito pubblico emergevano sinistri scricchiolii; la recessione dell’economia reale era già evidente e così pure il malessere sociale dei ceti più deboli, delle famiglie e del Mezzogiorno. Il Nord dal canto suo aveva cessato da tempo di “tirare” ed anzi avvertiva un disagio sociale crescente.
Questa era la situazione fino al novembre del 2011 e questo spiega il sollievo e il plauso pressoché unanime con cui fu accolta la decisione di Napolitano di dare a Monti la responsabilità di salvare l’Italia da un avvitamento irreversibile incombente.
L’operazione è riuscita per metà. In cento giorni. Piacerebbe chiedere ai tanti critici che ora sbucano a destra a manca in quali altre occasioni nella storia del nostro Paese situazioni di analoga gravità sono state contenute e avviate a soluzione in così breve lasso di tempo.
Io non ne ricordo altre. Si può a giusto titolo rievocare quella compiuta dal governo Ciampi nel 1993, con una differenza però tutt’altro che trascurabile: la grave crisi di allora era soltanto italiana; quella di oggi è mondiale ed è in corso da quattro anni.
Ciampi compì il miracolo in un anno con un governo che, per nascita e composizione, somiglia molto da vicino a quello attuale. Fu anche quello ― come i critici di oggi ripetono ossessivamente parlando dei tecnici ― un sequestro della democrazia?
Il governo Ciampi scrisse la parola fine alla partitocrazia e alla corruttela pubblica che l’aveva accompagnata. Il governo Monti ha messo la parola fine al populismo dell’era berlusconiana. Ma ― lo ripeto ― ci troviamo oggi al centro della più grave crisi economica e politica degli ultimi cent’anni. L’Italia è stata fino a un mese fa al centro di questa crisi perché le dimensioni del nostro debito pubblico sono tali che un suo “default” avrebbe fatto saltare in aria l’euro e quindi l’intera Europa creando un terremoto di dimensioni planetarie.
In cento giorni siamo usciti da questa situazione ma non per questo la crisi è conclusa. Siamo nel bel mezzo di una recessione che durerà almeno un anno. La crescita è indispensabile».
Le inesattezze presenti in queste righe sono diverse e tutte molto significative. Nostra intenzione e appunto quella di provare a farle emergere, in modo tale da far sì che il lettore abbia poi gli strumenti per essere in grado di comprendere meglio quello che sta accadendo, in questo momento storico, nel Paese. Un’operazione politica da gattopardi: cambiare tutto affinché nulla realmente cambi negli assetti di potere costituiti. A cominciare da quelli, intoccabili, del premier uscente. Come è ormai chiaro, infatti, l’azione del cosiddetto governo tecnico ha dei confini invalicabili: quelli fissati dal gruppo di potere berlusconiano che, in parlamento, sostiene e sosterrà il governo Monti solo in quelli iniziative politiche che sono in linea con i propri particolari interessi.

Sul punto, Giuseppe Giulietti è stato lapidario, ad esempio, nel sostanziare e motivare le richieste e le esigenze berlusconiane in materia di riforma televisiva (2):
«Sul tavolo della richieste Berlusconi e soci hanno messo la concessione gratuita delle frequenze digitali, e la nomina di un presidente della Autorità di garanzia delle comunicazioni che “garantisca” la conservazione degli attuali equilibri e non si metta in testa di stimolare liberalizzazioni e concorrenza».
Ma, evidentemente, questo è uno dei tanti aspetti che gli agiografi del governo Monti sottovalutano o volutamente ignorano.

Dunque un primo elemento da tenere bene a mente è questo: ha senso ritenere che un governo presieduto da Berlusconi avrebbe inesorabilmente condotto il Paese al tracollo economico, mentre un governo presieduto da uno stimato economista, ma comunque condizionato nella sua azione politica dalla componente parlamentare berlusconiana, rappresenti “senza se” e “senza ma” una invidiabile macchina di efficienza e risanamento pubblico?

In altre parole: può mai essere sufficiente la mera messa tra parentesi di Berlusconi a giustificare una così cieca e diffusa fiducia nell’azione del nuovo esecutivo?

Logica e buon senso imporrebbero dunque di evitare le professioni di fede e di vagliare invece attentamente il contenuto politico delle iniziative messe in atto dai sedicenti tecnici per agevolare l’uscita dalla crisi.

E, prima ancora, impongono di analizzare a fondo le due questioni critiche: il cosiddetto “rischio default” e la già riscontrata recessione economica.

Qui emergono le prime inesattezze nella ricostruzione del coro mediatico ― di cui Scalfari si fa perfetto interprete ― che descrive Monti come l’eroico salvatore di un paese innegabilmente sull’orlo del baratro, perché è proprio sull’innegabilità di un “rischio” fallimento che improvvisamente diventa stato di fatto (“un avvitamento irreversibile incombente”) che invece ci sarebbe parecchio da discutere, mentre ― come vedremo meglio in seguito ― la recessione è un dato che viene addirittura acuito dall’operato del governo Monti.

Considerando che il Giappone, nonostante l’impatto terribile che ha avuto sull’economia di quel paese la devastazione (questa sì!) naturale del terremoto dello scorso anno con l’annesso tsunami e la conseguente tragedia nucleare di Fukushima, non va in default (3), pur avendo un rapporto tra PIL e debito pubblico che va ben al di là di quello italiano (4), così tanto criminalizzato, è lecito avanzare qualche perplessità sulla lettura dominante, che pare avvalorare l’idea che sia il debito pubblico in quanto tale la causa del fallimento teorizzato?

Se il Giappone ― che ha un PIL che è più del doppio di quello italiano ed è pur sempre la terza economia del pianeta ― non è ancora fallito, ne è sottoposto alle stesse pressioni speculative che hanno fatto sì che l’Italia arrivasse a pagare rendimenti altissimi sui titoli di debito collocati sul mercato nei mesi scorsi (5), ciò non dipenderà, forse, anche dalla circostanza che il gigantesco debito pubblico nipponico è detenuto in larga misura dagli stessi risparmiatori giapponesi?

E allora siamo sicuri che l’Italia di fine 2011, ovvero l’ottava economia del globo (6), sia stata realmente a rischio di immediato fallimento? E che senza l’azione ‘salvifica’ dell’esecutivo Monti ciò sarebbe inevitabilmente accaduto e potrebbe ancora accadere, se ― come sembra sostenere Scalfari ― ci si azzardasse a ripristinare una normale dialettica politica tra opposti schieramenti?

Vale la pena a questo punto di soffermarsi a riflettere bene sulla questione del famigerato spread.

Questo indicatore numerico ― che, come tutti ormai hanno compreso, è bene che non esprima valori particolarmente elevati ― definisce una misura. Ma cosa misura esattamente questo spread? Si tratta in estrema sintesi della differenza tra i rendimenti di due titoli di debito pubblico, il BTP italiano e il Bund tedesco (7): quanto più è alta questa differenza, tanto più sarà alto il rendimento che lo Stato italiano dovrà offrire ai suoi creditori per piazzare sul mercato i propri titoli di debito. Perché è un bene che questo valore resti basso lo si può comprendere immediatamente con un esempio: se l’Italia deve pagare 100 miliardi di titoli in scadenza e per adempiere all’obbligazione mette sul mercato 100 miliardi di nuovi titoli di debito, il nuovo debito sarà tanto più alto quanto più sarà alto il rendimento che i nuovi creditori pretenderanno per acquistare i titoli di recente emissione. In concreto, con un rendimento al 7%, pari a quello del periodo di maggiore crescita dello spread, il debito pubblico italiano crescerebbe di 7 miliardi per ogni cento miliardi di debito pubblico da ricollocare. Questo significa che se il debito pubblico italiano fosse andato interamente a scadenza nel periodo di massimo incremento dello spread, sarebbe balzato dai circa 1900 miliardi da ultimo certificati a oltre 2000 miliardi: il che significa, a PIL costante, anche un peggioramento del rapporto tra PIL e debito pubblico. Tuttavia, abbiamo già visto come il caso giapponese testimoni chiaramente che né un alto debito pubblico, né un alto rapporto tra PIL e debito pubblico significhino automaticamente e inevitabilmente che quella economia nazionale sia destinata al fallimento. Abbiamo anche sottolineato che ci sono due indicatori che mettono al riparo da questo rischio: la ricchezza complessiva del paese e la collocazione nazionale (e non estera) dei titoli di debito. Il Giappone non fallisce, insomma, perché è una delle prime tre economie del pianeta e perché ha collocato presso i propri cittadini la gran parte dei titoli di debito emessi.

L’Italia, ottava economia mondiale, sul finire del 2011, diventa invece improvvisamente uno Stato “sul ciglio di un baratro”, per poi salvarsi ‘miracolosamente’ nel giro di pochi mesi, anche se forse non è ancora detto che sia davvero salva… Ancora non sono sufficientemente evidenti le contraddizioni di questa costruzione mediatica del terribile pericolo da scongiurare ‘sospendendo’ la democrazia?

Va detto, allora, che c’è un terzo indicatore che rende meno concreto il rischio fallimento dello Stato: una buona durata media del debito. Si capisce subito, infatti, che se il debito non ha scadenza immediata lo Stato ha un margine di manovra più ampio, per evitare il cosiddetto default. Qui, sia a giugno 2010 (8) che a distanza di un anno (9), abbiamo testimonianza di un dato sulla durata media, settennale (10), del debito pubblico italiano che dovrebbe mettere il nostro Paese in una posizione di relativa tranquillità.
In particolare, poi, da questo grafico (11) emerge anche un altro dato spesso taciuto sulla questione: più della metà del debito pubblico italiano resta in Italia; ciò che rende ancora più assurda la storiella del neonato italiano che nascerebbe già molto indebitato a causa dell’enorme debito pubblico nazionale, essendo evidente, invece, che se si tratta del figlio di uno dei possessori dei titoli, in realtà, egli potenzialmente ‘eredita’ subito un credito da riscuotere e non un debito.

Dunque, sebbene i fondamentali economici non giustificavano una previsione di fallimento fino a tutta l’estate del 2011, d’un tratto il Paese si viene a trovare “sul ciglio di un baratro”.

Perché? Forse perché come sostiene il prof. Arrigo in uno degli articoli citati poc’anzi, si tratta più di una questione psicologica che tecnica?

Per cui:
«se i mercati internazionali percepiscono un Paese come pericoloso, lo fanno diventare pericoloso per davvero. Sono profezie che si autoavverano. Se pensano che alla scadenza dei titoli ci sarà incapacità da parte dello Stato a rimborsarli, perché non ci saranno abbastanza sottoscrittori disposti a comprarne di nuovi, si diffonde il panico. E le variabili per la valutazione sono abbastanza eterogenee».
In questo caso, bisognerebbe concludere che se nel giro di pochi mesi l’Italia può improvvisamente diventare Paese a rischio fallimento, per poi rapidamente normalizzarsi, ciò dovrebbe spiegarsi con la circostanza che la personalità del grande economista Mario Monti, da sola, risulterebbe in grado di placare quelli che Keynes non a caso definiva come “animal spirits” del libero mercato.

Ma può soddisfarci una lettura del genere degli eventi di questi mesi?

Spulciando meglio tra le fonti, si scopre che forse una spiegazione meno emotiva al repentino calo dello spread c’è: e non c’entra tanto l’azione politica o il carisma di Monti, quanto piuttosto le due massicce iniezioni di liquidità effettuate dalla Bce a dicembre 2011 e nel febbraio ultimo scorso (12).

Un recente redazionale de Il Fatto Quotidiano ci pare abbastanza esplicito, in proposito:
«i due maxi-prestiti a tre anni sborsati dalla Bce a dicembre e febbraio sono stati decisi “a fronte di circostanze straordinarie nell’ultimo trimestre del 2011” e “potrebbero aver contribuito a contenere gli effetti di contagio della crisi del debito sovrano”, oltre ad aver avuto effetti positivi sul mercato bancario. In Italia la fiducia dei consumatori “si è gradualmente indebolita per riportarsi su livelli analoghi a quelli osservati durante la recessione del 2008–2009”, e siamo il paese che nell’Eurozona ha registrato il maggiore calo dello spread tra i propri titoli di Stato e i Bund tedeschi. Una flessione pari a 166 punti avvenuta “nonostante il declassamento da parte delle tre principali agenzie di rating” (13)».
A questo punto ci sembra chiaro ed evidente che, in assenza di fondamentali economici tali da giustificare oggettivamente e innegabilmente un rischio fallimento dell’Italia, in questi mesi noi abbiamo assistito a una grossa operazione speculativa, bloccata infine dall’intervento ‘salvifico’ della Bce.

Va detto che, per statuto, la Bce non può intervenire quale prestatore di ultima istanza, acquistando direttamente i titoli che il mercato non reputa sufficientemente affidabili e che, secondo alcuni, è proprio questo aspetto (14) che espone le singole economie nazionali dell’area euro ad attacchi speculativi come quello subito dal nostro Paese. Dunque l’intervento calmierante della Bce si realizza, come abbiamo visto, indirettamente e, da quel che si capisce, esigendo contropartite politiche ai singoli Stati che più beneficeranno di queste operazioni. In altre parole, Monti più che il salvatore della Patria verrebbe così a rappresentare una sorta di esecutore materiale del mandato politico richiesto dalla Bce per agevolare ― col suo intervento indiretto, atto a stoppare la speculazione ― la sostanziale tenuta dei conti pubblici nazionali.

Stando così le cose, si dovrebbe quindi comprendere meglio anche quanto sia sballato il parallelo fatto da Scalfari col governo Ciampi e quanto sia fuori luogo il suo sarcasmo sulle preoccupazioni di chi descrive l’attuale fase politica come una sorta di “sequestro della democrazia”.

Non solo è del tutto fuori dalla realtà il voler far coincidere la fine della prima repubblica con la fine della “corruttela pubblica che l’aveva accompagnata” ― e qui se non bastano i tanti episodi quotidiani di cronaca, da Lusi (15) alla giunta della efficientissima Lombardia (16), dovrebbero essere più che sufficienti i 60 miliardi di euro annui che la Corte dei conti stima come maggiori costi della spesa pubblica nazionale, dovuti appunto a dinamiche e pratiche corruttive (17) ― e l’attribuire all’avvento di Monti la fine di quel berlusconismo che, invece, abbiamo visto essersi limitato, in realtà, soltanto ad agire da dietro le quinte, ma c’è proprio una divaricazione netta, sul piano storico, tra i due fenomeni.

Ciampi è stato di fatto un traghettatore: ha assolto il suo breve compito a guida dell’esecutivo, con un piglio da uomo delle istituzioni che non a caso gli è valso poi la candidatura e l’elezione a Capo dello Stato.

Monti, invece, ha assunto (e sempre più sta assumendo) un ruolo che è palesemente politico. Che lo svolga come garante del rigore accademico liberista nei confronti dei mercati (con conseguente preservazione dello status quo e dei rapporti di potere economico consolidati) o come mandatario della Bce, poco cambia: politico è il suo ruolo e politica resta la sua iniziativa.
Iniziativa politica che, come detto, non rimane peraltro nemmeno circoscritta alla fase emergenziale, ma che si prefigura, anzi, come potenzialmente estendibile anche al di là della fine della legislatura in corso.

Va dunque analizzato attentamente ― lo ripetiamo ancora una volta ― il contenuto dell’azione politica dell’esecutivo Monti. Perché se non si riesce a comprendere a fondo in che direzione procede la politica di questo governo, difficilmente si potrà capire il senso della netta alternativa tra restaurazione aristocratica e democrazia popolare, che si sta profilando, con la messa tra parentesi di Berlusconi e la perpetuazione del berlusconismo sotto altre forme.

(continua)

Giuseppe D'Elia

per L'Indiependente.it

«È vero che, formalmente, 
il parlamentarismo deve servire ad esprimere 
nell'organizzazione statale 
gli interessi di tutta la società. 
Ma d'altro lato 
esso è un'espressione soltanto della società capitalistica, 
cioè di una società 
nella quale sono preponderanti 
gli interessi capitalistici. 
Le istituzioni formalmente democratiche 
diventano con ciò sostanzialmente 
strumenti degli interessi della classe dominante. 
E questo si palesa in modo evidente 
nel fatto che, 
non appena la democrazia 
tende a smentire il suo carattere classista 
ed a trasformarsi 
in uno strumento dei reali interessi del popolo, 
le stesse forme democratiche 
vengono sacrificate 
dalla borghesia 
e dalla sua rappresentanza statale».

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(1) http://www.repubblica.it/politica/2012/03/11/news/scalfari_cento_giorni-31332436/?ref=HREC1-5

(2) http://www.blitzquotidiano.it/opinioni/giuseppe-giulietti-opinioni/berlusconi-lorenza-lei-frequenze-tv-mediaset-1151035/

(3) http://intermarketandmore.finanza.com/giappone-il-debito-pubblico-ora-diventa-un-problema-25886.html

(4) http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Economia%20e%20Lavoro/2008/10/debito-pubblico-mondiale-tabella.shtml

(5) http://www.repubblica.it/economia/2011/12/23/news/spread_borse-27111560/

(6) http://it.wikipedia.org/wiki/Lista_di_stati_per_PIL_%28nominale%29

(7) http://economiaefinanza.blogosfere.it/2011/11/spread-btp-bund-che-cose-spiegazione-per-i-comuni-mortali.html

(8) http://intermarketandmore.finanza.com/analisi-sostenibilita-debito-pubblico-12076.html

(9) http://www.linkiesta.it/debito-l-economist-ci-salva-ecco-perche-l-italia-e-ok

(10) http://intermarketandmore.finanza.com/files/2010/05/vita-residua-debito-pubblico.gif

(11) http://intermarketandmore.finanza.com/files/2010/05/debito-pubblico-detenuto-estero-300x225.gif

(12) http://www.linkiesta.it/sorpresa-piu-che-monti-lo-spread-cala-grazie-draghi

(13) http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/03/15/stime-ribasso-nelleurozona-italia-cala-fiducia-consumatori/197463/

(14) http://www.ilpost.it/2011/11/19/prestatrice-di-ultima-istanza/

(15) http://www.youtube.com/watch?v=PQI1pun7yKw

(16) http://www.rainews24.rai.it/it/news.php?newsid=162908

(17) http://www.polisblog.it/post/13975/corruzione-quanto-costa-ocse-corte-dei-conti