martedì 19 luglio 2011

"Genova, le lacrime di luglio", dieci anni dopo /1


Cos'è successo esattamente a Genova dieci anni fa? E, soprattutto, perché è così importante che se ne parli ancora? O, meglio, perché lo è (1) per quasi tutti quelli che sono stati direttamente o indirettamente coinvolti nel social forum del 2001, organizzato in concomitanza col G8?

Senza avere la pretesa di arrivare a conclusioni definitive, chi scrive, crede che ci siano alcuni punti fermi – tra l'altro, vedremo, di stretta attualità – sui quali oggi è semplicemente doveroso continuare a riflettere, affinché quella storia (davvero una gran brutta storia) non abbia mai più a ripetersi.

A Genova, dieci anni fa, c'erano migliaia di persone che, liberamente e legittimamente, protestavano contro la follia di una politica sottomessa agli interessi del grande capitale finanziario.
«Quel movimento diceva – e ancora oggi dice – che la religione del mercato senza regole avrebbe portato al mondo più ingiustizie, più sfruttamento, più guerre, più violenza. Che avrebbe distrutto la natura, messo a rischio la possibilità di convivenza e persino la vita nel pianeta. Che non ci sarebbe stata più ricchezza per tutti ma, piuttosto, nuovi muri, fisici e culturali, tra i nord ed i sud del mondo. Non la pacificazione, conseguenza della “fine della storia”, ma lo “scontro di civiltà”. (…) Oggi, le ragioni di allora sono ancora più evidenti. Una minoranza di avidi privilegiati pare aver dichiarato una guerra totale al resto dell’umanità e all’intera madre Terra. Dopo aver creato una crisi mondiale mai vista cercano ancora di approfittarne, rapinando a più non posso le ultime risorse naturali disponibili e distruggendo i diritti e le garanzie sociali messe a protezione del resto dell’umanità in due secoli di lotte» (2).
Nel merito, dunque, le ragioni della protesta erano tutt'altro che infondate.

E se il merito è in ogni caso indiscutibile – dato che, in un Paese libero, «tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero» (3) –, tutt'al più lo Stato può riservarsi di intervenire, qualora i metodi della protesta entrassero in conflitto con altri beni protetti dallo stesso (la sicurezza individuale, la proprietà privata, etc.).

In un Paese libero, insomma, lo Stato può senz'altro sanzionare eventuali condotte illecite dei manifestanti, ma questo dovrà esser fatto esclusivamente a seguito di un giusto processo (cioè quando le condotte illecite saranno state accertate e comprovate).

Dieci anni fa, invece, nel nostro Paese successe questo:
«(...) per aver detto solo la verità, venimmo repressi in maniera brutale e spietata. La città di Genova fu violentata fisicamente e moralmente. Le regole di una democrazia, che sempre prevede la possibilità del dissenso e della protesta, vennero sospese e calpestate. Un ragazzo fu ucciso. Migliaia vennero percossi, feriti, arrestati, torturati. Eravamo le vittime, ma per anni hanno tentato di farci passare per i colpevoli» (2).
E la repressione violenta del dissenso fu registrata in talmente tanti episodi e su un periodo di tempo così lungo, da rendere davvero poco credibile la tesi che fosse tutto e solo frutto dell'errore del singolo. Di tanti, troppi, singoli, in verità.

Giuseppe D'Elia


«Indomita Genova, le lacrime di luglio. 
Infondere paura come forma di controllo». 
_________________

(1) http://tg24.sky.it/tg24/cronaca/2011/06/23/genova_g8_io_ricordo.html

(2) http://genova2011.wordpress.com/

(3) Art 21 Cost. --> http://www.quirinale.it/qrnw/statico/costituzione/costituzione.htm