Andrebbe ascoltato più e più volte, e con estrema attenzione, il discorso con cui Concita De Gregorio (1) mette a nudo la folle strategia di quella parte del gruppo dirigente del Partito Democratico, che ha come obiettivo dichiarato l’alleanza elettorale col cosiddetto Terzo Polo. Secondo la giornalista ― che dirigeva ancora l’Unità, all’epoca del colloquio in cui le venne espressamente prospettato quanto segue ― il piano esposto da questo importante dirigente del Pd è così sintetizzabile: perdere le regionali in Lazio, in modo tale da rafforzare la posizione di Fini (a cui si poteva ascrivere la candidatura, poi, risultata vincente), inducendolo così ad accelerare la definitiva rottura con Berlusconi, preludio alla nascita del nuovo soggetto politico centrista in collaborazione con Casini e della futura e vincente alleanza tra questo “Terzo Polo” e il Partito democratico. Ma il dettaglio più sgradevole della vicenda è la motivazione con cui questo personaggio argomentava a favore della sicura riuscita di un progetto che definire azzardato è dire poco: come far digerire alla sinistra del Pd l’accordo elettorale con gli ex alleati di Berlusconi e l’ulteriore slittamento verso destra del partito? Presto detto: sarà la crisi economica ad agevolare questo passaggio politico.
Già solo
tutto questo dovrebbe essere sufficiente a permettere l’avvio di una
seria riflessione su cosa sarà realmente il Pd del dopo Berlusconi.
Gestire per un po’ la cosa pubblica insieme a lui (N.B. il governo
Monti, senza i voti dei berlusconiani, di fatto, non ha una maggioranza
parlamentare) e poi presentarsi alle elezioni in coalizione con i suoi
alleati di sempre? Questo è il futuro? Questa è l’alternativa al
berlusconismo?
Se, poi, a questo ‘sommo’ saggio di ‘alta’
strategia politica, andiamo a sommare le altre questioni che la De
Gregorio tocca nel predetto intervento, lo scenario politico per gli
anni a venire si fa decisamente cupo. Riassumendo in poche battute la
‘sagacia’ di quella parte della dirigenza del Pd che stiamo qui
criticando, il quadro che ne viene fuori è grosso modo questo: i
referendum? Inutile sostenerli. Non passeranno mai! Le proteste dei
lettori? Irrilevanti, tanto poi quelli che protestano alla fine nemmeno
ci vanno a votare! Le manifestazioni studentesche? Uno scialbo rituale
stagionale: nulla di serio!
In definitiva, tutto quello che di
politicamente rilevante c’è stato in Italia, dal punto di vista della
partecipazione democratica ― dal No B-day del cosiddetto popolo viola,
alla manifestazione delle donne (quella del “Se non ora, quando?”) ― per
il Pd poteva anche non esserci. Anzi, fosse dipeso da questa oziosa
dirigenza, probabilmente, nulla di tutto questo vi sarebbe mai stato:
probabilità che diventa quasi certezza matematica, riguardo ai
referendum.
Come il lettore più attento avrà senz’altro notato,
abbiamo volutamente circoscritto questi spunti critici non al Partito
democratico in quanto tale, ma a quella parte della sua dirigenza che si
colloca su posizioni che sono in linea con quanto riportato dall’ex
direttrice del quotidiano fondato da Antonio Gramsci.
Nelle righe
che seguono, dunque, una volta verificata la coerenza e la
verosimiglianza dei profili critici fin qui evidenziati, si proverà a
trarre le conseguenze logiche di una siffatta strategia e, soprattutto,
si cercherà di mostrare le principali ragioni per le quali sarebbe
auspicabile una inversione di rotta.
Prima di procedere, però, è
doveroso un breve accenno alla situazione emergenziale che ha
determinato le dimissioni da capo dell’esecutivo di Silvio Berlusconi
(2) e la nascita del super-governo di tecnici, presieduto da Mario
Monti. Un governo che, al momento, praticamente, ha la fiducia
dell’intero Parlamento (3). Un esecutivo, che, insomma, è letteralmente
di unità nazionale, se si considerano le ben note mire autonomiste di
quella che oggi è l’unica forza di opposizione parlamentare: la Lega
Nord.
Ora, nel rinviare l’analisi di merito sull’operato del
nuovo esecutivo al momento in cui questo sarà delineato formalmente (e,
soprattutto, a quando si saranno stabilmente dispiegati gli effetti dei
provvedimenti varati), sul metodo qualcosa si può e si deve dire subito,
con molta chiarezza.
Innanzi tutto vogliamo ben sperare che
questa impressionante maggioranza che rasenta l’unanimità non venga
usata per apportare modifiche alla Costituzione repubblicana: sarebbe
davvero un grave vulnus democratico se il cosiddetto “parlamento dei
nominati” ― quello che ha una composizione che è frutto di una legge
elettorale che passerà alla storia con la definizione di “Porcata”
affibbiatagli dal suo stesso relatore ― dovesse decidere, a fine
legislatura, di sfruttare la situazione emergenziale per apportare dei
cambiamenti alla Legge Fondamentale; cambiamenti che, una volta
approvati con maggioranza dei due terzi, non sarebbe nemmeno possibile
sottoporre a referendum confermativo. Se davvero è necessario apportare
delle modifiche alla Costituzione della Repubblica ― e chi scrive non
pensa che questo sia il momento storico per affrontare un discorso del
genere ― o il processo si realizza in un parlamento in cui tutte le
istanze politiche espresse dalla comunità nazionale hanno una propria
rappresentanza, proporzionata al consenso registrato nelle urne; oppure
se (come oggi) il parlamento è eletto con un sistema che sovrastima le
maggioranze relative ed esclude le proposte politiche che non hanno
ottenuto alle elezioni un consenso reputato sufficiente, la modifica
deve essere approvata senza far ricorso a quella maggioranza qualificata
che impedirebbe la richiesta di referendum confermativo, a fronte di un
eventuale diffuso malcontento popolare su uno o più aspetti della
riforma costituzionale. Questo ci sembra un aspetto tutt’altro che
trascurabile e del tutto indipendente dalla questione economica che è
alla base dell’emergenza da affrontare e risolvere in tempi stringenti.
Di conseguenza, l’auspicio è che la modifica dell’art. 81 Cost. e la
conseguente “Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella
Carta costituzionale” rappresentino un caso eccezionale (4) e non
l’inizio di una vasta opera di riscrittura del patto costituente.
L’altra
questione di metodo, poi, è invece squisitamente economica. Anche qui è
bene essere molto chiari e netti: questa idea, veicolata ossessivamente
dai grandi media, che c’è un unico modo per affrontare e risolvere il
rischio economico che il nostro Paese deve affrontare a causa di una
manovra speculativa senza precedenti, che ― a quanto pare ― è in grado
di mettere in ginocchio la terza economia d’Europa e una delle economie
più avanzate di tutto il pianeta, è semplicemente ridicola. Un processo
di risanamento del bilancio pubblico, che sia anche in grado di
garantire una crescita economica, può essere realizzato in diverse
maniere. Se l’obiettivo è il risanamento e i vincoli comunitari (oltre
che le contingenze economiche) ce lo impongono, nessuno può imporre
invece la negazione di un margine di scelta politica, più o meno ampio,
su tempi e modi di quest’opera di risanamento. In concreto: un Paese
ricco, come è ricca l’Italia, può risanare il proprio bilancio non solo
riducendo le spese, ma anche incrementando le entrate. Può farlo. Senza
nemmeno aumentare le tasse, se solo si riuscisse a recuperare
strutturalmente una quota rilevante di quegli almeno 250 miliardi di
imponibile evaso annualmente dai contribuenti infedeli (5). Può farlo,
inoltre, rimodulando il prelievo fiscale. Come? Andando ad agire, ad
esempio, su quel 10% di cittadini che detengono quasi la metà della
ricchezza del Paese (6). Può farlo, infine: aggredendo la rendita: non
solo quella finanziaria, ma anche quella immobiliare, ovvero quei circa
1700 miliardi di euro di patrimonio di seconde, terze e ennesime case
(7) che verosimilmente vanno periodicamente a incrementare gli accumuli
patrimoniali di quel famoso 10% più ricco ed in cui, probabilmente, si
va a concretizzare anche buona parte di quella quota annuale di
imponibile evaso, che, evidentemente, non si trasforma in investimenti
produttivi, stante la sostanziatale stagnazione che affligge l’Italia da
ormai troppi anni.
Fatte queste dovute precisazioni, possiamo
dunque addentrarci nel merito della dichiarata riflessione e verificare,
quindi, “se”, “come” e “perché” la strategia, diciamo così, centrista,
del Partito democratico è una strategia suicida e per quali motivi essa
rappresenta, in realtà, un vero e proprio trionfo di quelle stesse
logiche berlusconiane, che larga parte dell’elettorato effettivo e
potenziale del Pd ha combattuto e osteggiato in questi anni.
(continua)
Giuseppe D'Elia
«Ci conviene perdere?!?
Ma come ci conviene perdere?
In che senso?»
In che senso?»
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(2) http://www.youtube.com/watch?v=uweH8Qijuzw
(3) http://bit.ly/vuAwQ9
(4) http://temi.repubblica.it/espresso-open-politix/2011/12/02/pareggio-di-bilancio-in-costituzione-ok-unanime-dalla-camera/ + http://www.lavoce.info/dossier/pagina2977.html
(5) http://friendfeed.com/seideegiapulp/c93788d3/al-13–5-l-evasione-media-degli-italiani-nel-2010
(6) http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/12/20/banca-ditalia-il-45-della-ricchezza-in-mano-al-10-della-famiglia/82840/
(7) http://www.linkiesta.it/patrimoniale-immobili-tassa-ricchezza