mercoledì 26 ottobre 2011

Uniti per un cambiamento globale: socialismo o barbarie?/3


(segue) Tirando le fila del discorso, restano alcuni nodi delicatissimi da sciogliere: in primo luogo, va chiarito se è lecito discutere di vere e proprie istanze rivoluzionarie e se è possibile volgere in positivo la comune matrice anti-capitalista, recuperando — con lessico marxiano — l’alternativa tra socialismo o barbarie; secondariamente (e correlativamente) va posta la questione del come perseguire le suddette istanze.

Va detto subito che, ancora una volta, il movimento è oggettivamente eterogeneo e che queste diversità possono frenare non poco la spinta unitaria, tuttavia: comune è la domanda di forme nuove del vivere associato; comune è il bisogno di maggiore democrazia; comune è la consapevolezza che se il capitalismo è come un virus, di cui le crisi periodiche costituiscono soltanto i sintomi, mai la società potrà rigenerarsi, fintanto che ci si adopererà soltanto per lenire la sintomatologia, lasciando al virus la possibilità di continuare a proliferare.

Che gli sviluppi di queste premesse abbiano carattere spiccatamente rivoluzionario è, dunque, un dato di fatto. Che questa comune matrice anti-capitalista possa dar luogo a una diffusa rinascita (attualizzata) delle tematiche marxiane è invece soltanto uno dei possibili esiti di queste lotte.

Più che cercare di comprendere quante e quali delle tante sigle che direttamente si riallacciano al pensiero di Marx e dei suoi interpreti, in questa sede, può allora essere utile verificare se un rinnovato ricorso alle categorie marxiane possa agevolare o meno il realizzarsi del cambiamento sociale comunemente auspicato dal movimento.

Va verificato, insomma, se c’è un embrione di coscienza di classe alla base della dichiarata ricerca di unità, volta alla realizzazione di un cambiamento globale che permetta di uscire definitivamente dalla perdurante situazione di crisi economica.

Bisogna quindi ritornare, innanzi tutto, sulla famigerata crisi.

Vladimiro Giacchè, recentemente, ha fatto il punto della situazione, in maniera molto sintetica, ma chiarissima (seppur circoscrivendo il tutto al caso italiano):
«A oltre quattro anni dall’inizio della crisi continuano i salvataggi di banche e assicurazioni con soldi pubblici: l’ultimo caso, di pochi giorni fa, riguarda Dexia e costerà 90 miliardi di euro a Belgio, Francia e Lussemburgo. In compenso si lascia marcire la crisi greca, dopo averla aggravata con il piano di austerity draconiano che ha accompagnato il “salvataggio” del 2010. I bilanci pubblici in Europa sono stati prima appesantiti accollando ad essi il debito privato, e ora si tenta di alleggerirli smantellando i sistemi di welfare e privatizzando a più non posso. Intanto si assiste ad uno spostamento di sovranità dagli Stati a una sorta di terra di nessuno in cui chi detta le regole sono di fatto i governi degli Stati “forti” dell’Unione o addirittura la Banca Centrale Europea. Quest’ultima, non contenta di far male il proprio lavoro (vedi l’aumento dei tassi di interesse a luglio), ha pensato bene di cominciare a dettare agli Stati le politiche economiche e sociali: richiedendo all’Italia — con una lettera che avrebbe dovuto rimanere segreta “per non turbare i mercati” — di effettuare la “privatizzazione su larga scala” dei servizi pubblici, ridurre gli stipendi pubblici e rendere più facili i licenziamenti». (10)
Dopo aver spiegato poi perché va assolutamente scongiurato il rischio default, onde evitare un ulteriore peggioramento delle condizioni esistenziali delle classi lavoratrici, Giacchè pone l’accento su una questione fondamentale:
«C’è però un altro modo per leggere lo slogan “Noi il debito non lo paghiamo”: mettendo l’accento sul “noi”. Questa è invece una rivendicazione sacrosanta, soprattutto nei confronti di una finanziaria che — tra colpi di scure alla finanza pubblica, abolizione di gran parte delle detrazioni fiscali e aumento delle imposte indirette — grava in gran parte su chi guadagna di meno e paga le tasse, mentre è in arrivo l’ennesimo condono-regalo per gli evasori. È giusto esigere che la crisi la paghi chi evade 120 miliardi di euro all’anno e chi detiene grandi patrimoni, e che i risparmi, anziché sugli asili nido e sulle scuole, si facciano sulle spese militari (26 miliardi) e sullo sperpero di denaro pubblico per le imprese private (30 miliardi all’anno). Avanzare oggi questa rivendicazione equivale a introdurre nelle dinamiche di questa crisi un vincolo nuovo: l’indisponibilità di chi sinora ne ha pagato il prezzo a continuare così».
Va precisato, in proposito, che non a caso la formula più esplicita dello slogan citato — formula che il movimento ha iniziato a privilegiare, proprio per scongiurare le (interessate) accuse di irresponsabilità — è questa: “Noi la vostra crisi non la paghiamo”. In questa contrapposizione, in questa presa di coscienza che c’è un “Noi” maggioritario che, unendosi, può ribaltare la condizione di soggezione nei confronti di quel “Voi” minoritario ed elitario, c’è senz’altro un seme di un rinnovato conflitto di classe che potrebbe germogliare, contrapponendo apertamente i detentori di capitali ai lavoratori subordinati. 

Ma, allo stato attuale delle cose, di più davvero non si può dire, senza arrivare a conclusioni troppo arbitrarie.

Può sottolinearsi, piuttosto, come il predetto slogan si vada a riempire di contenuti:
«Non è vero che tutto il debito va ripagato, il popolo ha l’obbligo di restituire solo quella parte che è stata utilizzata per il bene comune e solo se sono stati pagati tassi di interesse accettabili. Tutto il resto, dovuto a ruberie, sprechi, corruzione, è illegittimo e immorale, come hanno sempre sostenuto i popoli del Sud del mondo.
Per questo chiediamo un’immediata sospensione del pagamento di interessi e capitale, con contemporanea creazione di un’autorevole commissione d’inchiesta che faccia luce sulla formazione del debito e sulla legittimità di tutte le sue componenti. Le operazioni che dovessero risultare illegittime, per modalità di decisione o per pagamento di tassi di interesse iniqui, saranno denunciate e ripudiate come già è avvenuto in altri paesi.
La sospensione sarà relativa alla parte di debito posseduto dai grandi investitori istituzionali (banche, assicurazioni e fondi di investimento sia italiani che stranieri) che detengono oltre l’80% del suo valore. I piccoli risparmiatori vanno esclusi per non compromettere la loro sicurezza di vita.
Contemporaneamente va aperto un serio e ampio dibattito pubblico sulle strade da intraprendere per garantire la stabilità finanziaria del paese secondo criteri di equità e giustizia.
Almeno cinque proposte ci sembrano irrinunciabili:
- riforma fiscale basata su criteri di tassazione marcatamente progressiva;
- cancellazione dei privilegi fiscali e seria lotta a ogni forma di evasione fiscale;
- eliminazione degli sprechi e dei privilegi di tutte le caste: politici, alti funzionari, dirigenti di società;
- riduzione delle spese militari alle sole esigenze di difesa del paese e ritiro da tutte le missioni neocoloniali;
- abbandono delle grandi opere faraoniche orientando gli investimenti al risanamento dei territori, al potenziamento delle infrastrutture e dell’economia locali, al miglioramento dei servizi sociali col coinvolgimento delle comunità». (11)
Questa progettualità politica, unita ad altre ben note proposte — si pensi soprattutto alle ipotesi di tassazione sulle transazioni finanziarie o Tobin Tax (12) e al cosiddetto “reddito di cittadinanza” (13) — dimostra inequivocabilmente che la distanza, innegabile, che c’è (in Italia, in particolar modo) tra i movimenti e il parlamento segnala una fortissima assenza di rappresentatività, che dovrebbe preoccupare ogni sincero democratico.
«Era necessario farci strada con la violenza, con il sacrificio, con il sangue; era necessario stabilire un ordine e una disciplina voluti dalle masse, ma impossibili da ottenere con una propaganda all’acqua di rose, con parole, parole e ancora parole e con ingannevoli battaglie parlamentari e giornalistiche». (14)
Chi sa che queste parole sono state scritte da Benito Mussolini, nel capitolo della sua autobiografia intitolato al “giardino del fascismo”, infatti, di fronte alle persistenti tracce di esaltazione di una violenza che — come si è già sottolineato in precedenza — produce solo ulteriore regresso sociale, non può non pensare immediatamente alla massima di Michel Foucault sul
«come fare per non diventare fascisti anche se (soprattutto se) si crede di essere militanti rivoluzionari». (15)
Viene dunque conclusivamente in rilevo la questione del metodo e delle forme con cui praticare la lotta politica per il progresso sociale, nel dato momento storico.

Qui va detto senza tanti giri di parole che la scelta di forme di lotta nonviolente, risponde non certo a preconcette adesioni dogmatiche a petizioni di principio, ma ad una ponderata valutazione strategica.

Cosa c’è di più rivoluzionario del perseguimento e del raggiungimento di stabili obiettivi di progresso sociale senza spargimenti di sangue? Già l’ovvia risposta a questa domanda — oltre a quanto già detto in termini di reazione repressiva — dovrebbe incentivare la scelta di queste pratiche.

Ma c’è di più: per quanto lo sviluppo di internet abbia aperto nuovi e innumerevoli canali di accesso alla comunicazione di massa — che ora non è più esclusivamente verticale, come nei decenni scorsi — la forza di penetrazione dei grandi media (e delle televisioni, in particolar modo) rimane ancora preponderante. Principalmente, per la capacità di produrre meccanismi di identificazione. Ciò che consente di comprendere, da un lato, perché le masse abbiano potuto tollerare (e ancora tollerano) per decenni che, in determinate regioni del pianeta, altri esseri umani debbano convivere con guerre, pestilenze e carestie e, dall’altro, e per converso, come sia possibile che l’incendio di un’automobile nel corso di una manifestazione di protesta, talvolta, produca ostilità verso l’intero movimento. In quest’ultimo caso, opera un meccanismo identificativo (“quell’auto poteva essere la mia!”) che è del tutto assente nella prima ipotesi (“succede lontano da qui, ergo non può succedere anche a me”).

Riflettendo bene su come operano questi potenti meccanismi emotivi, forse, la scelta strategica di privilegiare forme di lotta nonviolente e pratiche inclusive dovrebbe essere compresa e meglio apprezzata da tutti.

E, in effetti, è proprio qui che un recupero del lessico marxiano potrebbe rivelarsi preziosissimo per abbandonare la logica dello scontro di piazza, riconciliandosi anche con quel famoso e controverso testo pasoliniano, in cui l’autore simpatizzava coi poliziotti “figli di poveri”, contrapponendoli ai giovani manifestanti (benestanti) “figli di papà”. (16)

In un epoca come quella attuale di diffuso e progressivo impoverimento, infatti, dovrebbe essere molto più semplice comprendere che il poliziotto, servitore dello Stato, è un lavoratore subordinato esattamente come lo sono quelli che stanno riempiendo le piazze di mezzo mondo, Italia inclusa: i lavoratori, i salariati, i precari, i cassintegrati, i pensionati, gli inoccupati, le tante formule nuove (e spesso vuote) create ad arte per frammentare e dividere quel (simbolico) 99% che costituisce l’ossatura di quella maggioranza soggiogata dalla minoranza detentrice dei capitali accumulati e del Potere.

Provare allora a spezzare il giogo di un copione di scontri, purtroppo, già messo in scena infinite volte, cercando di instaurare un dialogo che renda partecipi e solidali i lavoratori dei corpi di polizia, con le ragioni della classe lavoratrice nelle sue più diverse forme, non è forse la premessa basilare per la riuscita di una rivoluzione pacifica?


Il 15 ottobre, in piazza, c’è stato anche questo (17): qualche primo, timidissimo (e poco pubblicizzato) tentativo di invertire la tendenza allo scontro, instaurando un dialogo tra lavoratori; un dialogo basato sulla “solidarietà di classe”, insomma. Così come, a scontri avvenuti, si è avuto modo di leggere anche una severa (auto)critica, svolta dall’interno, da un funzionario di polizia del Silp CGIL, che non ha avuto remore nel denunciare (18) errori di gestione, a suo avviso, evidentissimi, stante la conclamata inefficacia del modello “militare” di ordine pubblico, in situazioni come quella di cui, qui, si sta discutendo.

Come è evidente, dunque, anche in Italia, nonostante tutto, ci sono ancora ampi margini per scrivere assieme una pagina fondamentale della storia dell’umanità.

Peccato solo che, in una fase politica di rinnovato fermento sociale, i principali partiti politici (soprattutto quelli presenti in Parlamento), fin qui, abbiano preferito restare a guardare, mostrando di non aver per nulla compreso quello che sta succedendo attorno a loro e al loro nauseante immobilismo.

Giuseppe D'Elia


«Bourgeois society stands at the crossroads,
either transition to socialism 
or regression into barbarism».