Fino a che punto il desiderio di sanzionare certe condotte particolarmente riprovevoli può offuscare una serena capacità di giudizio, quando si tratta di questioni giuridiche? Un chiaro esempio di questo errore di valutazione ci è stato offerto, nei giorni scorsi, dall'unilateralità monolitica con cui si è descritta la vicenda del reato di maltrattamento in famiglia che, in base ad una recente pronuncia della Cassazione, non sussisterebbe più, se si dimostra che la persona maltrattata possiede un "carattere forte". In sostanza, informazione ufficiale e web all'unisono hanno creato la seguente massima giurisprudenziale: "quando la donna ha un carattere forte non costituiscono reato i maltrattamenti commessi a suo danno dal marito".
Peccato che – come opportunamente osserva l'avv. Carmela Puzzo in una "Nota a sentenza" pubblicata su "Diritto & Diritti" – "è evidente il travisamento da parte dei media del ragionamento e delle affermazioni effettuate dalla Suprema Corte, che con la decisione in esame non ha fatto altro che ribadire un orientamento pacifico della giurisprudenza".
Dunque, la Cassazione ha riaffermato che "per la sussistenza del reato di maltrattamenti in famiglia, che è reato a condotta plurima, non sono sufficienti singoli e sporadici episodi occasionali, in quanto i più atti che integrano l'elemento materiale del reato debbono essere collegati tra loro da un nesso di abitualità e devono essere avvinti, nel loro svolgimento, da un'unica intenzione criminosa, quella appunto di avvilire ed opprimere la personalità della vittima".
Rispetto a tali profili (abitualità ed intenzionalità della condotta): "il fatto non sussiste" per "evidenti carenze probatorie". E bastava leggere la sentenza, disponibile fin da subito in Rete, con la dovuta attenzione per (...)
Giuseppe D'Elia