martedì 3 aprile 2012

GOVERNO TECNICO E MESSA TRA PARENTESI DI BERLUSCONI: COSTITUENTE ARISTOCRATICA VS. DEMOCRAZIA POPOLARE/ 3

(segue) Prima di entrare nel merito del magma vivo e incandescente del terzo capitolo di intervento del governo, quello in materia di diritti dei lavoratori, è necessario offrire al lettore qualche ulteriore indizio a suffragio della nostra tesi di fondo.

Ancora una volta, è dalla illustre penna di Eugenio Scalfari che possiamo ricavare significativi elementi di giudizio sul come e sul perché si possa passare dall’anti-berlusconismo militante, alla messa tra parentesi di Berlusconi e alle cosiddette politiche unitarie, garantite dall’autorità suprema di Mario Monti.

Giusto pochi giorni fa, col suo sprezzante e banale tentativo di irridere tutto ciò che ‘osa’ muoversi fuori dal recinto della politica dei partiti sedicenti responsabili (43), Scalfari ha individuato chiaramente il Nemico, tentando curiosamente di emulare un modo di fare giornalismo, tipico della stampa berlusconiana (e di quello di proprietà della famiglia Berlusconi, in particolar modo).

Sulla questione ci sembrano molto incisive e dirimenti le righe conclusive del testo collettivo (44) scritto in risposta a questo singolare modo di argomentare, da Alberto Lucarelli, Maria Rosaria Marella, Ugo Mattei e Luca Nivarra.

Righe che illustrano molto bene la divaricazione politica che si sta realizzando in questo Paese, tra spinte oligarchiche ed esigenze di partecipazione democratica:
«Si è sviluppata una spinta alla rivendicazione dei beni comuni (…) il cui filo unitario è costituito, per un verso, da un netto rifiuto della prospettiva di una integrale mercificazione del mondo e, per altro verso, da una intensa domanda di partecipazione democratica, sin qui mortificata dal micidiale combinato disposto di deriva oligarchica dei partiti e di deriva tecnocratica delle istituzioni.
(…) Più democrazia, meno mercato; più partecipazione e più valore d’uso, meno delega e meno valore di scambio: questo, in sintesi, il mondo dei beni comuni che, per dirla con Rodotà, propone un’altra politica capace di sconfiggere l’antipolitica. Si può dissentire: ma quando il dissenso assume le forme della caricatura e dell’aperto dileggio, vuol dire che quelle parole d’ordine cominciano a suscitare inquietudine in quel grande partito trasversale, a cui Repubblica dà voce, per il quale viceversa la parola d’ordine è: non disturbate il manovratore.
Un’ultima notazione. Proprio all’inizio del suo articolo Scalfari, inopinatamente imbossito, si avvale dell’elegante metafora del «dito medio» per descrivere quell’atteggiamento di ostilità a tutte le divinità in cui egli crede. Non possiamo non ricordare al nostro autorevolissimo interlocutore che, nella storia recente dei beni comuni, l’unico «dito medio» (sempre metaforicamente parlando) è quello che governo, Parlamento e Presidenza della Repubblica continuano ad alzare nei confronti del popolo sovrano dopo aver reintrodotto la disciplina dei servizi pubblici locali abrogata dai referendum (…)».
In precedenza, sempre nel solito editoriale domenicale (45), Scalfari ci aveva invece indicato il Bene Assoluto, in vista della prossima tornata elettorale nazionale:
«Il Pd e il Centro possono allearsi per una legislatura costituente. Possono chiedere a Monti di presiedere il governo. Monti risponderà come crede, ma ove la risposta fosse positiva penso che il Parlamento riunito per eleggere il presidente della Repubblica dovrebbe votare per un nuovo settennato di Giorgio Napolitano. Lui e Monti ci stanno portando fuori dal tunnel. Se il lavoro si deve compiere nessuno meglio di quel tandem può farlo. Napolitano ― lo conosco bene ― dirà risolutamente di no, ma se il nuovo Parlamento decidesse in quel senso penso che dovrebbe arrendersi alla volontà dei rappresentanti del popolo sovrano».
Ora, non si capisce bene se Scalfari, nel far riferimento a «un Centro ovviamente rinforzato dall’implosione del Pdl», stia invitando il PD a stringere un’alleanza programmatica coi partiti di Casini e Fini o se creda che l’UdC di Casini sia l’unico interlocutore da privilegiare, in quanto partito in grado di attrarre a sé ampie fasce del vecchio elettorato berlusconiano, ma si capisce benissimo cosa è essenziale per il fondatore di quello che ― piaccia o meno ― resta, ancora oggi, un quotidiano di riferimento per larga parte dell’elettorato di centrosinistra: per Scalfari, quello che davvero conta è l’emarginazione di ogni istanza politica che voglia ostacolare in qualunque modo la supremazia valoriale dei mercati, che la politica, invece, a quanto pare, non può e non deve far altro che assecondare.

Non è un caso, infatti, che, in entrambi gli articoli citati, Scalfari si scagli apertamente non solo contro il movimento nazionale nato a supporto della lotta per avere chiarezza sul progetto della linea Tav valsusina, ma addirittura anche contro l’istituto referendario.

Va detto, in proposito, che se le elezioni amministrative dell’anno scorso, col trionfo di Pisapia a Milano e ancor di più con quello di De Magistris a Napoli, hanno rappresentato un primo campanello d’allarme per la tenuta del progetto moderato di un bipartitismo della falsa alternanza, i 27 milioni di sì ai referendum dello scorso giugno sono l’elemento che, forse, più di tutti ha favorito l’affermarsi di un consenso trasversale sulla prospettiva di avviare una stagione di politiche di unità nazionale, all’insegna di una auto-dichiarato senso di responsabilità, che ― come abbiamo visto ― va ben al di là delle contingenze emergenziali di breve periodo (per quanto artatamente amplificate).

Ma l’aspetto che più direttamente interessa il prosieguo del nostro discorso, qui, è quello relativo all’atteggiamento preponderante assunto dai media mainstream nel trattare le questioni citate. Chiariamo subito: ciò che accomuna i referendum di giugno alla questione della Tav valsusina è appunto la modalità comunicativa prevalente che si viene a riprodurre in maniera ossessiva nel discorso mediatico. Coro mediatico e retorica argomentativa. Voci consonanti su (quasi) tutti i media per mesi, sofismi su sofismi, terrorismo psicologico, esempi emozionali tanto efficaci nel solleticare gli istinti, quanto slegati dalla realtà del caso di specie, etc. etc.

Tecniche comunicative, queste, sulle quali il berlusconismo ha costruito le proprie fortune elettorali. Tecniche comunicative che diventano doppiamente pericolose quando il coro mediatico riduce ulteriormente le voci dissonanti e lo spazio a queste concesso. Vale la pena di ricordare, infatti, che il carattere della comunicazione di massa che smette di informare per fare mera propaganda non si fonda sulla scomparsa assoluta del pensiero non omologato, ma sulla marginalizzazione e sulla mistificazione di ogni pensiero non allineato, oltre che sulla tendenza alla menzogna ripetuta incessantemente per creare una parvenza di verità.

Tutti dovremmo ricordare quante volte, nel corso della campagna referendaria dell’anno scorso, i sostenitori del nucleare da fissione hanno utilizzato l’argomento della dipendenza energetica dell’Italia da fonti di approvvigionamento estero. Argomento falsissimo e stupido, non essendo il nostro Paese un produttore di uranio. Eppure ― sebbene per la verifica dell’inattendibilità di questa informazione sarebbe bastato anche solo un rapido controllo su Wikipedia (46) ― la menzogna è stata ripetuta ossessivamente, non solo dai comitati pro-nuke, ma anche da giornalisti dimentichi delle più basilari regole di deontologia professionale. E non è da escludere che senza la fatalità del concomitante disastro nucleare giapponese, il ruolo dell’informazione indipendente e la campagna capillare dei comitati promotori dei referendum non sarebbero bastati a far percepire l’assurdità di questi argomenti e, complessivamente, di un investimento economico che puntava all’utilizzo pluriennale di una tecnologia che risultava già obsoleta ― basti pensare al progetto sperimentale, ormai in via di realizzazione (47), di una centrale nucleare a fusione, per intenderci ― al momento in cui si andavano ad avviare i programmi di costruzione delle nuove centrali.

Anche la linea Tav valsusina, ultimamente, è stata oggetto dello stesso trattamento: l’opera rappresenta la modernità e chi non la vuole è un retrogrado; la sua realizzazione comporta solo innegabili benefici; gli oppositori, in ultima analisi, sono egoisti e violenti. Questo in sintesi brutale, il coro mediatico che ha occultato le vere ragioni della protesta (48), fondate appunto sull’assenza di una convincente analisi del rapporto tra i costi e i benefici dell’opera e sul rischio di destinare ingenti risorse ― l’opera infatti non è affatto pagata interamente coi fondi UE e le stime più ottimistiche alludono, tutt’al più, a una copertura del 40% dei costi di realizzazione (49) ― a un progetto non particolarmente vantaggioso per la collettività, a fronte dei sostanziosi tagli alla spesa pubblica di cui abbiamo già dato ampio conto in precedenza. Soprattutto non è vero che nessuno al mondo avanza dubbi sul valore assolutamente positivo delle linee ferroviarie ad alta velocità, come è testimoniato da questo articolo dell’Economist (50) che, in particolare, mette l’accento sul costo elevato del servizio offerto e sulla sostanziale sparizione delle tratte intermedie, conseguente alla necessità di avere pochissime fermate, in modo da ridurre ulteriormente la durata totale del tragitto tra la stazione di partenza e quella di arrivo.

E il coro mediatico propagandistico è stato il protagonista assoluto, anche nella vicenda che ha interessato e che ancora sta interessando la terza fase dell’attività del governo tecnico: quella inerente alla cosiddetta riforma del mercato del lavoro.

Un disegno di legge che il consiglio dei ministri ha approvato in data 23 marzo 2012 (51). Esattamente dieci anni dopo la storica (e partecipatissima) manifestazione del Circo Massimo in difesa dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori: quella norma che il sedicente governo tecnico ha deliberatamente deciso di manomettere, portando a compimento il disegno del secondo governo Berlusconi, e dunque meritandosi a pieno l’etichetta tranchant di “Licenzia Italia” che Alessandro Gilioli (52) ha prontamente affibbiato al progetto governativo, quando è stato reso pubblico, due giorni prima che venisse, poi, formalizzato come testo di indirizzo normativo.

Un testo che, nel suo punto più controverso, prevede esattamente questo (53):
«Per i licenziamenti oggettivi o economici, ove accerti l’inesistenza del giustificato motivo oggettivo addotto, il giudice dichiara risolto il rapporto di lavoro disponendo il pagamento, in favore del lavoratore, di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva, che può essere modulata dal giudice tra 15 e 27 mensilità di retribuzione, tenuto conto di vari criteri.
Al fine di evitare la possibilità di ricorrere strumentalmente a licenziamenti oggettivi o economici che dissimulino altre motivazioni, di natura discriminatoria o disciplinare, è fatta salva la facoltà del lavoratore di provare che il licenziamento è stato determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, nei quali casi il giudice applica la relativa tutela».
E si capisce perfettamente che, in base a questa cosiddetta riforma, ogni persona che perderà il proprio posto di lavoro per un “falso” motivo economico, rischia seriamente di rimanere senza lavoro: questo lavoratore ingiustamente licenziato, infatti, con la nuova normativa, potrebbe essere senz’altro reintegrato soltanto qualora riuscisse a dimostrare che il vero motivo del licenziamento era un motivo discriminatorio. Riuscendo invece a dimostrare che il falso licenziamento economico nascondeva in realtà un licenziamento disciplinare, spetterebbe comunque al giudice la scelta tra risarcimento del danno subito dal lavoratore ― che, poi, dovrà ugualmente trovarsi un nuovo posto di lavoro ― e suo reintegro nel posto di lavoro ingiustamente perso.

Ed è del tutto comprensibile che la CGIL si sia opposta a questa soluzione regressiva, che Giorgio Cremaschi ha stigmatizzato alla perfezione in poche righe (54):
«L’articolo 18 viene semplicemente cancellato. Infatti i licenziamenti discriminatori sono vietati già oggi da qualsiasi convenzione, legge, costituzione, italiana, europea, internazionale. Ed è uno dei tanti falsi del governo che con questo provvedimento questo divieto sia esteso sotto i quindici dipendenti. Esso c’è sempre stato, ma non ha mai agito per la semplice ragione che nessun padrone è così stupido da licenziare per esplicita discriminazione personale, ideologica, razziale.
Su tutti gli altri licenziamenti, quelli veri, salta la copertura dell’articolo 18. Naturalmente salta per chi ce l’aveva, cioè per circa 8 milioni di lavoratori dipendenti. Non un piccolo numero, quindi. Ed è ridicolo questo balletto attorno all’applicazione della nuova legge nel pubblico impiego. È ovvio che sarà così, perché tutte le amministrazioni pubbliche, in un modo o nell’altro, hanno applicato lo Statuto dei lavoratori. Quindi se questo viene cambiato ne assumono automaticamente anche le modifiche.
Ma tutto questo fa parte di quel misto di incompetenza, arroganza, sfacciataggine che oggi contraddistingue l’operato del ministro Fornero e del suo Presidente del Consiglio. L’articolo 18 è la reintegra del posto di lavoro, senza di essa il licenziamento è libero.
È utile ricordare che una legge contro la libertà di licenziamento c’era già prima dello Statuto dei lavoratori, è la legge 604 del 1966, legge che prevede il solo indennizzo in caso di licenziamento ingiusto. È stata proprio l’inefficacia di questa legge a indurre il Parlamento a introdurre quell’istituto della reintegra che il governo oggi smantella in forma brutale e truffaldina. La reintegra viene abolita del tutto per i licenziamenti cosiddetti economici. In un periodo di crisi, di ristrutturazione, di esternalizzazioni, di tagli comunque definiti, questo significa licenziare a piacimento».
Ed è dunque su quel “salvo intese” ― con cui il governo ha voluto accompagnare il rilascio al pubblico del testo di indirizzo ― che ora si giocherà, in Parlamento, una partita decisiva per la sorte di milioni di lavoratori italiani, ma ancor di più per l’assetto dei rapporti di forza nell’insopprimibile conflitto che sussiste sempre tra capitale e lavoro.

D’altra parte, è evidente la rilevanza della questione, se persino l’arcivescovo Giancarlo Bregantini, capo-commissione CEI per il Lavoro, di recente, sul punto, dapprima ha affermato (55) che «bisogna chiedersi, davanti alla questione dei licenziamenti, chiamati elegantemente, con un eufemismo, “flessibilità in uscita”, se il lavoratore è persona o merce», per poi sottolineare che, chiaramente, «il lavoratore non è una merce. Non lo si può trattare come un prodotto da dismettere, da eliminare per motivi di bilancio».

Con il che non deve affatto meravigliare se anche Bersani, a nome del PD (56), e Bonanni, a nome della CISL (57), hanno cominciato a dare segni evidenti di una volontà di modificare la parte relativa ai licenziamenti economici, equiparando il trattamento a quello ora previsto per i licenziamenti disciplinari: lasciando dunque al giudice la libertà di decidere tra reintegro del lavoratore ingiustamente licenziato nel suo posto di lavoro e risarcimento senza reintegro. Situazione che, pur costituendo un notevole passo indietro, sul piano della tutela complessiva contro il licenziamento immotivato, al momento, rappresenterebbe quantomeno una soluzione che permetterebbe di limitare i danni e di mantenere comunque, in qualche modo, ancora in piedi il meccanismo del reintegro, vera e propria colonna portante per l’efficacia dell’effetto di deterrenza dell’art. 18.

Senza modifiche, infatti, la nuova normativa produrrebbe danni considerevoli, lo ribadiamo. Con una sostanziale precarizzazione di milioni di lavoratori che, così, rimarrebbero esposti al ricatto perenne del rischio licenziamento arbitrario.

E lo vogliamo ripetere ancora una volta, essendo questo il punto decisivo della questione: stabilire per legge che una determinata tipologia di licenziamento ingiusto (qualunque essa sia) non comporta più il reintegro nel posto di lavoro, ma solo un risarcimento, significa stabilire il prezzo del licenziamento pretestuoso. Perché? Perché è tutt’altro che facile, per il lavoratore, andare poi a dimostrare in giudizio, non solo che il suo datore di lavoro ha mentito sulle ragioni addotte, ma anche che le sue reali intenzioni fossero di natura (lato sensu) discriminatoria.

In concreto, con questa norma, senz’altro, saranno direttamente a rischio i sindacalisti scomodi ― non a caso l’art. 18 è collocato nella parte che lo Statuto dei lavoratori dedica alla “libertà sindacale” (58) ― che, già oggi, patiscono la strategia da Far West della Fiat di Marchionne, come certificato proprio in questi giorni, dalle motivazione della sentenza di reintegro dei tre operai di Melfi, ingiustamente licenziati con la pretestuosa e non dimostrata accusa di boicottaggio della produzione (59).

Ma se poniamo mente al contenuto della riforma pensionistica ― non si può andare in pensione prima del compimento dei 67 anni di età, salvo maturazione di 41–42 anni di contributi e con le eccezioni specifiche per alcuni tipi di lavori particolarmente usuranti (60) ― messa in campo col famigerato decreto “Salva Italia”, ci rendiamo agevolmente conto del rischio serissimo che potrebbero presto patire i tanti lavoratori ultra-cinquantenni che ciascuna azienda deciderà di dismettere, con un licenziamento individuale, motivato con ragioni economiche puramente fittizie, avendo a questo punto la ragionevole certezza di non incorrere nel rischio di doverli reintegrare. L’azienda in sostanza può decidere di optare per il licenziamento individuale, tutte le volte in cui riterrà che il calo di produttività, dovuto all’invecchiamento del lavoratore, che non ha ancora raggiunto i 66 anni necessari per godere di un trattamento pensionistico, sia più svantaggioso del pagare il risarcimento previsto dalla nuova legge per il licenziamento ingiusto.

Inutile aggiungere che chi direttamente potrà trarre profitto da questa nuova situazione sono le compagnie assicurative che, verosimilmente, molto presto, avranno nuove quote di rischio da poter coprire, oltre a quelle delle cosiddette pensioni integrative…

Di fronte a questo quadro desolante, si fa davvero fatica a comprendere la posizione assunta in proposito dal Presidente della Repubblica: che Giorgio Napolitano, infatti, decida di dimenticarsi del suo ruolo di figura super partes per sostenere pubblicamente una riforma che, a suo dire (61), «non può essere identificata con la sola modifica dell’art. 18» è a dir poco inspiegabile!

Certo, è vero che la proposta di riforma del governo si pone anche l’obiettivo di andare a toccare alcune delle questioni che realmente affliggono quella oramai larga parte del mondo del lavoro italiano che non gode di particolari tutele, trovandosi di fatto intrappolata in percorsi di precarietà esistenziale, che sembrano spesso non avere sbocchi. Ma non è affatto vero che per dare tutele ai precari bisogna necessariamente ridurre le tutele dei lavoratori con contratti stabili, né è vero che l’abuso nel ricorso a tipologie contrattuali a vario titolo “a tempo determinato” è l’effetto di un eccesso di tutela (la famigerata mancanza di flessibilità in uscita) del tipico contratto a tempo indeterminato.

Le balle mediatiche propagandate ossessivamente da mesi sul tema, vengono smentite dalla letteratura scientifica, ad esempio, qui (62), in una efficacissima sintesi di Emiliano Brancaccio, si evidenzia la totale assenza di conferma al dogma della flessibilità come precondizione per la crescita dell’occupazione:
«Su tredici ricerche realizzate sugli stock, nove di esse danno risultati indeterminati, tre segnalano che la maggior flessibilità del lavoro riduce l’occupazione e aumenta la disoccupazione, e una soltanto segnala che la flessibilità riduce la disoccupazione (…). La tesi prevalente, secondo cui la flessibilità aumenterebbe i posti di lavoro, non sembra dunque trovare riscontri empirici convincenti».
La leggenda che in Italia non vi sarebbero ingenti investimenti esteri per le eccessive rigidità sul versante dei licenziamenti è smentita dall’indice EPL (Employment Protection Legislation) dell’OCSE (63) che è tanto più alto quanto più e difficile licenziare un lavoratore a tempo indeterminato e, al 2008, ci colloca al di sotto del dato medio: nell’area indicata, sono soltanto nove, cioè, i Paesi in cui si licenzia con maggiore facilità che nel nostro!

In ogni caso, se fosse vero che il ricorso a forme contrattuali precarie è il modo con cui l’impresa italiana cerca di sfuggire alla terribile gabbia dell’art. 18, nelle aziende con meno di 15 dipendenti ― laddove cioè l’art. 18 non si e mai dovuto applicare ― ci dovrebbe essere un boom di occupazione e tutta (o quasi) con contratti a tempo indeterminato. Situazione questa che è smentita dalla comune esperienza, oltre che dal dato Unioncamere che testimonia come, nel 2011, le assunzioni in Italia siano avvenute quasi esclusivamente nelle strutture imprenditoriali con 50 e più dipendenti e non nella piccola impresa.

La carenza di tutele per i circa 5 milioni di lavoratori precari italiani è un dato di fatto.

Ma è assurdo continuare a sostenere che ciò dipenda dalla propagandata figura mitologica del lavoratore iper-garantito (sia chiaro: un esempio tipico di questa figura è l’operaio che sta alla catena di montaggio) e dai suoi inaccettabili privilegi (lo vogliamo ribadire: secondo il coro mediatico propagandistico, chi si deve fare ogni santo giorno otto ore di catena di montaggio è un privilegiato, perché può essere reintegrato nel posto di lavoro a fronte di un licenziamento ingiusto).

Sarebbe interessante invece prestare ascolto a chi la vive la precarietà (64), ovvero sia a chi, da precario, insieme ad altri precari, prova a rivendicare politicamente un futuro più giusto in una società più giusta e più democratica:
«La precarietà non è la conseguenza di una generazione “privilegiata” e “garantita” che si è arricchita a danno dei propri figli. La precarietà è il frutto di scelte politiche precise di un’intera classe dirigente che con incredibile ipocrisia adesso pensa di utilizzare i giovani per giustificare l’esigenza di maggiore precarietà. La precarietà è causa della crisi, non la soluzione.
La precarietà, non solo mina la vita delle persone ma frena lo sviluppo di un Paese, dei suoi lavoratori e delle sue imprese, che scaricano la crisi sui precari senza più innovare.
È il quadro del nostro tempo. Impietoso e avvilente. Non vogliamo rimanerci imprigionati. Vogliamo uscirne in modo dirompente e svelare l’inadeguatezza delle ricette di chi il quadro lo ha disegnato scientemente».
Bisogna comprendere una buona volta, infatti, due dati di fatto innegabili:

1) che lo slogan propagandistico secondo cui “le imprese hanno bisogno di maggiore flessibilità in entrata e in uscita per competere sui mercati internazionali” significa che le imprese italiane chiedono a una classe politica ― evidentemente disposta ad assecondare, senza discutere, ogni loro pretesa ― di avere la libertà di disporre dei lavoratori come se fossero cose e non persone; il lavoratore da usare solo quando serve e da gettare via appena il mercato flette (o quando il lavoratore invecchia, diventando così meno produttivo), perché ormai non serve più, finisce con l’essere così l’unica variabile della competizione internazionale; come se la produttività di un’impresa e la sua capacità di stare sul mercato non dipendessero anche e soprattutto dalle scelte di investimento, dalle innovazioni tecnologiche e dalla qualità dei prodotti realizzati.

2) che in assenza di riforme che autorizzino la totale mercificazione (o reificazione, se si preferisce usare questo termine) del lavoratore, la precarizzazione di milioni di lavoratori non dipende necessariamente dalle forme contrattuali previste dalla normativa vigente, ma più esattamente dipende dal quotidiano abuso che se ne fa, in un quadro di illegalità diffusa: non è un caso insomma che il 61% delle imprese controllate dagli ispettori del lavoro, nel 2011, abbia fatto registrare la presenza di situazioni di irregolarità (65).

E, d’altra parte, lo stesso governo ‘certifica’ nei fatti questo stato di illegalità diffusa, quando, in sede di riforma, stigmatizza e offre (i suoi) rimedi a problemi come: quello dello stage formativo gratuito che non forma il lavoratore ma offre solo l’opportunità, alla parte datoriale, di gestire una quota del lavoro di impresa, senza dover elargire un’adeguata retribuzione; quello delle false partite IVA, dietro le quali si nasconde un rapporto di lavoro subordinato, connesso a un fenomeno di evasione contributiva; la reiterazione illimitata di contratti a tempo determinato, che nasconde un rapporto di lavoro stabile, che però non viene formalizzato come rapporto di lavoro a tempo indeterminato; e ― forse il caso più assurdo di tutti ― il contratto di associazione in partecipazione usato da alcuni negozianti per non applicare il contratto collettivo di categoria ai propri commessi (66), con la conseguenza che questi ultimi non solo hanno retribuzioni minori di quelle che spetterebbero loro in qualità di dipendenti, ma addirittura si possono trovare a dover subire le conseguenze dell’aleatorietà dell’attività imprenditoriale, in luogo di datori di lavoro, doppiamente disonesti, che provano a scaricare sui commessi gli effetti dei propri mancati guadagni.

Ma, se sulla efficacia dei rimedi governativi proposti, al momento, ovviamente, non è possibile pronunciarsi con certezza assoluta, quello che si può notare subito ― oltre al deliberato tentativo di precarizzare anche le esistenze dei lavoratori titolari di contratti a tempo indeterminato ― è la mancanza dello strumento principale per la risoluzione della questione del precariato di massa: una qualche forma di reddito minimo garantito, da condizionare logicamente anche alla disponibilità ad accettare le offerte di lavoro regolare, ogni volta che queste si presentino, in modo da scoraggiare eventuali fenomeni di parassitismo.

E va sottolineato che, come gli stessi movimenti di coordinamento dei precari sanno bene e ricordano a chi inopinatamente tende a parlare in loro nome (67), si tratta di forme di intervento pubblico perfettamente compatibili con l’ordinamento comunitario e che la stessa UE tende a promuovere.

Nello specifico è doveroso precisare che, tra i Paesi comunitari, soltanto l’Italia e la Grecia non prevedono una misura di protezione siffatta e che, per determinarne il costo, si può far riferimento ai dati europei relativi alla “Spesa per l’esclusione sociale” (68): questa, in percentuale di PIL, al 2009, registra una divaricazione in negativo dello 0,34%, per metterci in linea col dato medio (Paesi Membri EU27: 0,41% vs. Media Italia 0,07%).

Si tratterebbe di 5 o 6 miliardi di euro, insomma. Una cifra che ― come già abbiamo osservato in precedenza ― potrebbe benissimo essere messa a carico della rendita o dei grandi patrimoni, oppure anche dal recupero di risorse derivante dalla lotta all’evasione fiscale e alla corruzione o da un opportuno mix di tutte queste fonti di equo prelievo fiscale.

Tuttavia, ci pare evidente come (purtroppo) non sia affatto questa la direzione verso la quale ci si sta incamminando, essendo di dominio pubblico che il governo tecnico: non ritiene di particolare urgenza nemmeno l’approvazione della famosa normativa di recepimento della convenzione europea per la lotta alla corruzione, cui dovrà poi seguire una opportuna opera di adeguamento della normativa interna (69); mentre l’orientamento manifestato, al momento, in materia di lotta all’evasione fiscale è quello di usare le eventuali risorse aggiuntive recuperate, per ridurre la pressione fiscale (70).

Resta solo un ultimo aspetto da chiarire: quello che ci ha portato a definire la prospettiva di restaurazione aristocratica in atto ― che abbiamo cercato di descrivere sommariamente in queste pagine ― come una prospettiva costituente.

Ne avevamo già parlato, mesi fa, in relazione alla modifica dell’art. 81 della Costituzione (71). Ora, però, da più fronti (72), emergono timidi appelli (speriamo non inascoltati) all’attuale vasta maggioranza partitica che sostiene il cosiddetto governo tecnico, affinché si eviti di mettere mano alla Costituzione repubblicana, a fine legislatura e senza che alla cittadinanza venga lasciata possibilità di pronunciarsi democraticamente sulle modifiche effettuale.

Discorso questo che, chiaramente, vale per la cosiddetta introduzione in Costituzione del vincolo del pareggio di bilancio, ma non solo.

E, sul punto, ci sembrano risolutive le riflessioni di un costituzionalista del calibro di Gustavo Zagrebelski:
«Come possiamo accettare che un parlamento tanto screditato qual è quello scaturito dalla legge elettorale attuale possa mettere mano alla Costituzione? I frutti sono il prodotto dell’albero. Nessuna speranza può esserci che i frutti siano buoni se l’albero è malato. In ogni caso, LeG [Libertà e giustizia, nda] chiede, come elementare esigenza, che le eventuali riforme possano essere sottoposte al controllo del corpo elettorale in un referendum di particolare significato: come difesa d’una democrazia aperta contro i possibili tentativi d’ulteriore involuzione autoreferenziale dell’attuale sistema politico».
Parole inequivocabili. Che davvero non necessitano di ulteriore commento.

Giuseppe D'Elia


«È vero che, formalmente, 
il parlamentarismo deve servire ad esprimere 
nell'organizzazione statale 
gli interessi di tutta la società. 
Ma d'altro lato 
esso è un'espressione soltanto della società capitalistica, 
cioè di una società 
nella quale sono preponderanti 
gli interessi capitalistici. 
Le istituzioni formalmente democratiche 
diventano con ciò sostanzialmente 
strumenti degli interessi della classe dominante. 
E questo si palesa in modo evidente 
nel fatto che, 
non appena la democrazia 
tende a smentire il suo carattere classista 
ed a trasformarsi 
in uno strumento dei reali interessi del popolo, 
le stesse forme democratiche 
vengono sacrificate 
dalla borghesia 
e dalla sua rappresentanza statale».
___________________________________________________

(43 )http://www.repubblica.it/politica/2012/03/18/news/scalfari_18_marzo-31746256/

(44) http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/in-edicola/manip2n1/20120320/manip2pg/01/manip2pz/319814/

(45)http://www.repubblica.it/politica/2012/03/04/news/una_strana_giovent_che_odia_la_velocit-30907056/?ref=HRER1-1

(46) http://it.wikipedia.org/wiki/Uranio#Produzione_e_distribuzione

(47) http://www.fusione.enea.it/PROJECTS/iter/index.html.it

(48) http://friendfeed.com/seideegiapulp/3122157a/tav-val-di-susa-docenti-e-ricercatori-chiedono

(49) http://www.sitavtorino.net/?p=503

(50) http://friendfeed.com/seideegiapulp/fe894de0/fortunato-e-quel-paese-che-ha-una-stampa-fa

(51) http://www.governo.it/Presidenza/Comunicati/dettaglio.asp?d=67284

(52) http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2012/03/21/lerba-cattiva-e-la-memoria-fragile/

(53) http://ilcorsaro.info/palazzo/388-il-governo-vara-l-iter-della-riforma-fornero-il-testo?utm_source=twitterfeed&utm_medium=facebook

(54) http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2012/03/23/giorgio-cremaschi-perche-cancellano-larticolo-18/

(55) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2012-03-23/lavoratori-sono-merce-083342.shtml?uuid=AbybfmCF

(56) http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2012/03/23/AP7Jfe9B-parlamento_cambi_chiuda.shtml#axzz1ns9qQQCM

(57) http://www.cislscuola.it/content/20120322-una-riforma-credibile-modificare-la-norma-sui-licenziamenti-economici?quicktabs_menu_cosa_chi=1

(58) http://www.altalex.com/index.php?idnot=39728

(59) http://www.adnkronos.com/IGN/News/Economia/Caso-Melfi-i-giudici-Fiat-licenzio-i-tre-operai-per-liberarsi-di-sindacalisti_313124473991.html

(60) http://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2012-01-01/tutte-novita-riforma-pensioni-161914.shtml?uuid=AamukrZE

(61) http://www.rainews24.rai.it/it/video.php?id=27097

(62) http://www.emilianobrancaccio.it/2012/02/03/la-maggiore-precarieta-non-riduce-la-disoccupazione/

(63) http://keynesblog.com/2012/02/25/locse-politica-contro-locse-dei-dati/

(64) http://www.ilnostrotempoeadesso.it/component/content/article/35-contenuti/252-non-ce-la-beviamo-il-19-marzo-in-piazza-contro-la-precarieta.html

(65) http://www.lettera43.it/attualita/44470/lavoro-nero-irregolarita-al-61-nel-2011.htm

(66) http://friendfeed.com/seideegiapulp/e0f29aff/associati-in-partecipazione-per-fare-i

(67) http://www.ilnostrotempoeadesso.it/component/content/article/35-contenuti/238-reddito-minimo-dinserimento.html

(68) http://friendfeed.com/seideegiapulp/ae2e4686/serviziopubblico-redditominimogarantito

(69) http://www.ipsoa.it/cnf/documenti/1073391.asp?linkparam=1

(70) http://www.studioconsulenzaromano.net/news-online/grillimeno-tasse-con-recupero-evasione/21711/

(71) http://seideegiapulp.blogspot.it/2011/12/la-crisi-economica-come-pretesto-per.html

(72) http://www.controlacrisi.org/notizia/Politica/2012/3/4/20281-art-81-costituzione-ferrero-prc-federazione-della-sinistra/

(73) http://www.libertaegiustizia.it/2012/02/23/dipende-da-noi-dissociarsi-per-riconciliarci/